Claudio

Monteverdi

 

( 1567 - 1643 )

 

 

Claudio Monteverdi in un ritratto di Bernardo Strozzi, 1640 ca

 

 

 

Primo periodo (1567-1612)

Cremona e Mantova

 

Claudio Monteverdi nasce a Cremona, figlio primogenito del “cerusico” Baldassarre e di Maddalena Zignani: nel registro dei battesimi della chiesa dei SS. Nazzaro e Celso compare il suo nome sotto la data del 15 maggio 1567.
Si sa che compì i primi studi musicali sotto la direzione del maestro di cappella del Duomo Cremonese Marcantonio Ingegneri, che lo addestrò soprattutto al canto e a suonare la viola, che a quel tempo era divisa in diversi registri (c’erano la viola soprano, contralto, tenore ecc.), ma gli impartì anche lezioni di composizione.
Poco sappiamo dei suoi anni cremonesi, se non quello che possiamo dedurre dai frontespizi e dalle dedicatorie dei suoi due primi libri di Madrigali: apprendiamo così che probabilmente cercò un impiego presso i conti veronesi Verità, e poi a Milano, presso i Riccardi, ma senza successo.
Trovò finalmente impiego a Mantova, alla corte dei Gonzaga, come violista nella cappella allora diretta da Jacques de Wert, famoso soprattutto per la sua innovativa produzione madrigalistica. Nel 1587, alla morte del Duca Guglielmo, poco sensibile alle arti, gli successe infatti il figlio Vincenzo I: un grande mecenate, alla cui sensibilità e apertura dobbiamo il concreto realizzarsi di molte di quelle opere che segnarono la nascita del nuovo linguaggio musicale barocco. Sua sorella Margherita aveva sposato il Duca Alfonso II d’Este e lui, nel 1584, Leonora dei Medici: si stabilirono così anche fecondi rapporti con gli altri due principali centri di sperimentazione poetico-musicale della penisola.
Mantova fu molto importante nella formazione artistica di Monteverdi: è lì infatti che, sotto l’influenza dell’illustre fiammingo, il Cremonese comincia a sviluppare il suo personalissimo stile madrigalistico, sempre più incentrato sulla poetica degli affetti e sulla subordinazione della musica al testo poetico.
La prima prova in tal senso fu il Terzo Libro dei Madrigali, dedicato al duca Vincenzo, dove troviamo già applicati, pur all’interno di una struttura ancora sostanzialmente polifonica, tutti i principi dell’espressione musicale degli affetti, soprattutto nei madrigali su testi di Torquato Tasso: uso di declamati, isolamento momentaneo di una singola voce, dissonanze non preparate e a volte molto violente, frammentazione del tessuto musicale.
Il Terzo Libro ebbe un successo strepitoso e il nome di Monteverdi cominciò a circolare negli ambienti colti delle corti italiane ed europee, anche grazie alla presenza di Monteverdi, alla testa di una piccola ma agguerritissima cappella di 4 elementi, nel seguito del duca, allorché egli si recò a Vienna dal proprio signore feudale, l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, per prendere parte a una spedizione contro i Turchi che poi, al solito, non si fece. In compenso si fece molta buona musica, a Praga, Linz, Vienna e in altre città, e il nome e lo stile del divo Claudio si diffusero in Europa. A riprova di ciò, in un’antologia edita a Norimberga nel 1597 appare il suo madrigale Ah! Dolente partita.
Al ritorno da questa sicuramente esaltante esperienza, Monteverdi pensa che è giunto il momento di sistemarsi: sposa così, il 20 maggio 1599, Claudia Cattaneo, cantatrice alla corte dei Gonzaga, inaugurando un uso che sarà comune ai compositori barocchi anche del periodo maturo.
Il volgere del secolo portò al compositore dei grattacapi, nella persona del dotto canonico G.M. Artusi da Bologna, il quale, nel dialogo L’Artusi, overo Delle imperfettioni della moderna musica (1600), si scagliava contro quelle innovazioni di cui ho fatto cenno, praticate non solo da Monteverdi ma anche da altri madrigalisti dell’ambiente mantovano e ferrarese (Luzzaschi, Gesualdo, il giovane Sigismondo D’India), perché contrarie alle regole del contrappunto classico e a tutta la tradizione della musica “pura” e concettuale di stampo pitagorico che a quelle regole era sottesa. Monteverdi rispose in alcune lettere, firmandosi l’Ottuso Accademico, e come da regola in ogni querelle che si rispetti, seguì la controrisposta dell’Artusi nella Seconda parte dell’Artusi (1603). Ma la risposta migliore a queste critiche furono il Quarto (1603) e soprattutto il Quinto (1605) Libro dei Madrigali, dove il Nostro intensifica tutti gli espedienti formali già sperimentati nel Terzo, aggiungendo in quest’ultimo un’altra fondamentale innovazione: la prescrizione di un basso che doveva sostenere le linee vocali, ma non raddoppiandole meramente, bensì ponendosi con esse in un rapporto di larga indipendenza: per distinguerlo dal basso che raddoppiava, in uso nella musica liturgica e chiamato basso seguente, questo venne chiamato invece basso continuo. La funzione di questo basso era quella di consentire alle voci superiori, tre, due o una voce acuta, nella tradizione del Concerto delle Dame ferrarese, di muoversi con grande libertà per esprimere gli affetti del testo, mentre il basso doveva fungere da collante sonoro che ripristinava per altra via la fluidità polifonica compromessa.
Ma la polemica non si fermò qui: l’Artusi (si pensa sia lui a celarsi sotto lo pseudonimo di Antonio Braccini da Todi, ma il fatto non è accertato) ebbe ancora la voglia di rispondere: a questo punto intervenne a difesa del fratello Giulio Cesare Monteverdi, anch’egli compositore, in una Dichiaratione premessa agli Scherzi musicali (1607) di Claudio, mentre questi meditava di esporre più diffusamente i suoi principi in un trattato intitolato polemicamente Seconda pratica, overo Perfetione della moderna musica, che però non venne mai stampato. L’ultima parola la volle avere l’Artusi, il quale nel Discorso secondo musicale del 1608 ribatteva alle tesi di Giulio Cesare, sempre sotto lo pseudonimo di Braccini.
Ma l’ultima parola la ebbe invece Monteverdi, e chi, come lui, rifiutava un astratto ideale di bellezza musicale fondato su presunti fondamenti pitagorico-matematici in nome del valore espressivo della musica, della sua capacità di esprimere e suscitare gli affetti dell’animo umano. Perché il nuovo stile incontrò sempre maggior successo nei cenacoli culturali delle corti di tutta Europa, facendo cadere ben presto nell’oblio il vecchio stile contrappuntistico puro, che non venne più applicato a testi madrigalistici. Nasceva un nuovo linguaggio musicale, che informò di sé la vita culturale dei due secoli a venire: il linguaggio Barocco.
Inoltre, queste polemiche non influirono minimamente sulla carriera del compositore, che proseguì a gonfie vele: infatti nel 1601 succedette a Benedetto Pallavicino, che a sua volta aveva preso il posto di Jacques de Wert (morto nel 1596), quale maestro della cappella di corte.
Ed era una corte, quella dei Gonzaga a Mantova, che, con quella degli Este a Ferrara e quella dei Medici a Firenze, si poneva all’avanguardia dello sperimentalismo musicale di quei decenni intensi e decisivi per l’evoluzione del linguaggio dei suoni. I Gonzaga sapevano degli esperimenti della Camerata dei Bardi a Firenze: e vollero che il nuovo genere, lo “stile rappresentativo”, facesse l’ingresso nella loro corte in una rappresentazione, una favola pastorale, ch’era stata saggiata prima nelle chiuse stanze dell’Accademia degli Invaghiti. Questa non era interamente in stile rappresentativo, ma includeva madrigali, cori, balli e brevi ritornelli solistici, che solo qualche tempo dopo si cominciarono a chiamare arie, ed ebbero una notevole fortuna…
Correva l’anno 1607, anno che andrebbe inciso in lettere d’oro in tutte le storie della musica, poiché segna la nascita di quel genere che darà per così dire l’impronta a tutta l’epoca barocca, facendo sentire la sua influenza in quasi tutte le forme musicali di quella: il melodramma. In esso tutte le innovazioni che nei madrigali avevano tanto scandalizzato l’Artusi e i puristi suoi compagni trovavano la loro piena giustificazione nelle istanze liriche e descrittive suggerite dal testo, e ancor più dalle esigenze della drammaturgia nel suo complesso, facendo cadere le ultime resistenze e spianando definitivamente la strada all’affermazione del linguaggio Barocco.
L’apice della carriera del musicista Cremonese fu però funestato da un grave lutto: in quello stesso anno 1607, infatti, moriva la moglie Claudia. E questo evento si riflette nelle armonie lancinanti di molti dei madrigali del Sesto Libro, pubblicato solo (senza alcuna dedica, cosa straordinaria a quel tempo) nel 1614, il più cupo e doloroso tra quelli scritti da Monteverdi. Dal che si rende palese per la prima volta (ma in verità erano già apparsi i Madrigali di Gesualdo da Venosa) un’altra possibilità concessa al linguaggio musicale, che sarà sviluppata compiutamente solo molti anni più tardi, nell’Età Romantica: quella cioè di dare espressione al mondo intimo del compositore.
I Gonzaga parvero non accorgersi del lutto: moltiplicarono gli impegni per il povero Claudio, che dovette comporre gran messe di musiche, quasi tutte perdute, per il matrimonio di Vincenzo con Margherita di Savoia da celebrarsi nel maggio 1608: la tragedia in musica Arianna, di cui ci è rimasto solo il Lamento, forse la pagina più famosa del compositore, e poi il Ballo delle Ingrate e il prologo all’ Idropica, commedia di Ottavio Rinuccini.
Ciò spinse Monteverdi ad allontanarsi dalla corte che pure lo aveva tanto beneficato e, in sostanza, reso celebre, cercando impiego altrove. Così fu che, per ingraziarsi il papa Paolo V presso il quale intendeva porsi a servizio, compose un monumentale Vespro in cui applicò le nuove risorse del basso continuo e dello stile concertante alla musica sacra. E vi aggiunse pure una classica Missa da cappella a 6 voci. Nacque così il Vespro della Beata Vergine, il primo grande capolavoro della musica sacra Barocca, caratterizzato da grande varietà di stili. Ma non gli ottenne l’agognato posto di Maestro della Cappella Sistina.
Il 18 febbraio 1612 il duca Vincenzo, il grande mecenate, moriva. Gli successe il figlio Francesco, che troncò gli indugi di Monteverdi licenziandolo, non si sa per quale motivo. Il nostro passò alcuni mesi duri, elemosinando, incredibile ma vero, un posto di città in città, finchè, il 19 agosto 1613, divenne Maestro di Cappella della Cattedrale di San Marco, nella Serenissima Repubblica di Venezia, posto che ricoprirà fino alla morte.

 

Secondo periodo (1613-1643)

Venezia

 

Dopo lo stimolante incarico presso la Corte Mantovana, si potrebbe pensare che Monteverdi, assegnato a un posto prestigioso sì, ma chiesastico e dunque conservatore, si ritirasse a comporre lavori poco impegnativi per far fronte al suo ufficio, cessando di sperimentare. Niente di meno vero: l’ambiente culturale della Serenissima non era per nulla inferiore, quanto a vivacità, ansia di novità e ricchezza di committenze, a quello della corte dei Gonzaga: anzi, i palazzi del patriziato della città lagunare erano altrettante piccole corti, che commissionarono al Cremonese lavori d’occasione, spesso in concorrenza l’una con l’altra, cosa che accrebbe anziché diminuire l’inventiva del musicista.
Inoltre gli impegni della cappella di San Marco lo lasciavano libero di accettare committenze da altre città e potentati, per cui questi anni sono costellati di viaggi, nel bagaglio per ognuno dei quali non mancava mai un nutrito numero di composizioni.
In ognuno dei campi di attività del compositore nacquero così nuovi capolavori. Nell’ambito della musica sacra, la Selva Morale e Spirituale, scelta di brani sacri che Monteverdi trasse da quelli da lui composti durante il suo servizio in San Marco, pubblicata nel 1641 e dedicata a Eleonora Gonzaga. Nell’ambito della musica profana, Il Combattimento di Tancredi e Clorinda, pezzo in stile rappresentativo che gli fu commissionato dai Mocenigo e fu rappresentato nel loro palazzo durante il Carnevale del 1628.
Ma andiamo con ordine.
Tra la fine del 1619 e l’inizio del 1620 i Gonzaga contrattarono con Monteverdi, sempre più famoso e richiesto, un ritorno al loro servizio. Per ingraziarsi verosimilmente i loro favori, egli compose una nuova raccolta di madrigali, in stile modernissimo ed estremamente cortigiano (vale a dire Barocco): il Concerto o Settimo Libro dei Madrigali, nel quale incluse anche il ballo Tirsi e Clori che già aveva mandato loro nel 1615. Inoltre mandò un nuovo balletto, Apollo, andato perduto. Ma, nonostante il vertice artistico raggiunto ancora una volta, le contrattazioni finirono in un bel nulla.
Nel 1622 Eleonora Gonzaga, futura dedicataria della Selva, sposa Ferdinando II d’Asburgo: ora il ritorno di Monteverdi a Mantova implica una posta in gioco ben più grande, per cui il Cremonese moltiplica i suoi sforzi, inviando lavori su lavori, quasi tutti oggi perduti. Ma, inspiegabilmente, nulla ottiene.
Nel frattempo – non si sa mai – invia lavori agli Este, ai Farnese di Parma, soprattutto musica per il teatro che quei signori avevano costruito in quella città, all’interno del loro immenso palazzo, nonché per le nozze tra Odoardo e Margherita dei Medici.
Non potendo arrivare agli Asburgo per vie indirette, cioè attraverso i Gonzaga, Monteverdi tenta la via diretta, dedicando, nel 1638, al nuovo imperatore Ferdinando III, i suoi Madrigali guerrieri et amorosi, una raccolta di pezzi d’occasione già composti in precedenza (tra gli altri, il Combattimento e il Ballo delle Ingrate) e di pezzi nuovi appositamente composti, dove egli sperimenta nuove tecniche e stili, riuscendo a fondere in modo mirabile e unico stile contrappuntistico, rappresentativo, madrigalismi in un linguaggio personalissimo, tutto volto alla meraviglia, alla sontuosità sonora, ma soprattutto all’espressione degli affetti. Inoltre nella raccolta sono inclusi pezzi in cui il compositore sperimenta un nuovo artificio, che lui chiama stile concitato: si tratta dell’introduzione di note di brevissimo valore (“semicrome”) che danno un effetto di frenesia, simile, dice il classicista Monteverdi, a quello delle danze guerresche greche.
In quell’anno la fama del compositore non aveva più confini: tutte le sue raccolte di madrigali precedenti furono riedite almeno una volta tra il 1613 e la fine degli anni Venti, fatto unico nella storia dell’editoria musicale, mentre in tutte le antologie il suo nome non mancava mai. Ma Monteverdi non era sicuro della sua vecchiaia, perciò negli ultimi anni della sua vita si diede a cercare di ottenere un canonicato nella natia Cremona, ma non vi riuscì. Tuttavia, nel frontespizio degli Scherzi musicali editi nel 1632 il suo nome figura preceduto dal titolo di Reverendo: che avesse ottenuto l’agognato posto?
Certo è che il Cremonese non trascurò di buttarsi, alla veneranda età di 72 anni, nella nuova grande impresa commercial-musicale che proprio in quegli anni muoveva i primi passi nella Serenissima Repubblica: il teatro musicale a pagamento, non più per corti e palazzi, ma per luoghi appositi dove il pubblico doveva pagare, in varie forme, per entrare. Questi luoghi a Venezia si chiamavano il San Moisè, che fu inaugurato nel 1639 con una replica di Arianna, il San Cassiano, per il quale compose ex novo Il ritorno d’Ulisse in patria nel carnevale 1640, il SS. Giovanni e Paolo, che ebbe l’onore di veder rappresentato per la prima volta nel carnevale 1643 un capolavoro assoluto del melodramma, L’Incoronazione di Poppea, ma per il quale Monteverdi aveva già scritto, nel 1641, Le nozze d’Enea in Lavinia, purtroppo perduta.
Quest’opera presenta anche un’altra importante novità: è la prima da noi conosciuta in cui compaiono due castrati, rispettivamente soprano e contralto, nelle parti del protagonista del dramma e del suo antagonista (parti che solo più tardi troveranno la loro codificazione nei due caratteri eroico ed amoroso, ma che di fatto sono già assai distinte nello stile musicale): Nerone e Ottone. Assistiamo dunque anche al sorgere di quell’altro grande fenomeno musicale e sociale dell’età barocca che fu il divismo dei cantanti, soprattutto dei castrati, le “macchine canore” di cui parliamo estesamente in altra sezione di questo sito.
Quello stesso anno 1643 che vide il suo trionfo con quest’opera sublime ne vide anche la morte: la grande fiamma dello spirito di Monteverdi si spense e il suo corpo fu sepolto a S. Maria dei Frari, nella cappella dei Lombardi.

 

 

 

 

Opere teatrali

 

 
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L'Orfeo (Libretto  di Alessandro Striggio, 24 febbraio 1607)

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L'Arianna (Rinuccini, 1608; musica persa, contiene il famoso Lamento)

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La finta pazza Licori (Strozzi, 1627; musica persa)

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Proserpina rapita (Strozzi, 1630; musica persa)

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Il ritorno d'Ulisse in patria (Badoaro, 1641)

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Le nozze d'Enea con Lavinia (Badoaro, 1641; musica persa)

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L'incoronazione di Poppea (Libretto  di Giovan Francesco Busenello, carnevale 1643)

 

 

 

Catalogo completo delle composizioni

 

 

 

Discografia


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L 'Orfeo

Nigel Rogers, Patrizia Kwella, Catherine Denley, Guillemette Laurens, Jennifer Smith, Emma Kirkby

London Cornett and Sackbutt Ensemble
Ensemble Chiaroscuro, dir. Nigel Rogers
London Baroque, dir. Charles Medlam

Virgin Veritas (2 CD medio prezzo, 1983)

 

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Le 3 Opere: Orfeo - Ulisse - Poppea

L'Orfeo: Abete, Kiehr, Torres, Fernandez, etc;
Il Ritorno d'Ulisse in Patria: Banditelli, Zanasi, etc;
L'Incoronazione di Poppea: Laurens, Oliver, Banditelli, etc.

Elyma Ensemble, dir. Garrido

K617 (8 CD basso prezzo, 1996-1999)

 

 

 


 

 

A cura di  Xenio & Rodrigo
Ritratto fornito da Tassos Dimitriadis

 

www.haendel.it

 

Ultimo aggiornamento: 22-10-21