Farinelli 

 

 

Vita di Farinelli raccontata da

Charles Burney

 
 

 

Miniatura di Farinelli

 


 

« Giovedì, 23 agosto 1770.

Tutti coloro che amano la musica e soprattutto quelli che hanno avuto la ventura di ascoltare il signor Farinelli, rallegreranno nell’apprendere che è tuttora in buone condizioni di salute e di spirito. Abita a circa un miglio fuori città [Bologna]; e poiché non ero certi di trovarlo in casa gli feci sapere che dovevo consegnargli una lettera e alcune stampe da parte di Mn. Strange, il celebre incisore inglese, e che gliele avrei portate quando gli fosse stato comodo ricevermi. Non en trascorsa un’ora da quando il mio messaggero era partito, che il signor Farinelli stesso giunse da Padre Martini presso il convento francescano, per incontrarsi con me. È alto, magro, ma porta molto bene i suoi anni. Entrando nella biblioteca di Padre Martini mi venne incontro prendendomi le mani e mi disse che era impaziente di conoscere l’inglese che gli aveva inviato un messaggio. Conversammo a lungo e mi chiese notizie di parecchie persone della nobiltà e dell’alta borghesia inglese che erano stati suoi protettori, in particolare del duca e della duchessa di Leeds e di Lord Cobham. Nel corso della conversazione avendo io detto che da lungo tempo avevo desiderato conoscere due persone divenute così eminenti in campi diversi dell’arte musicale, e che questo era lo scopo principale del mio soggiorno a Bologna, il signor Farinelli, indicandomi Padre Martini disse: “Ciò che egli sta facendo resterà, mentre il poco fatto da me è già passato e dimenticato”. Gli risposi che in Inghilterra molti ricordano tuttora così bene le sue esecuzioni da non voler più ascoltare nessun altro cantante; che in tutto il regno ancora non si era spenta l’eco della sua fama e che ero certo che essa sarebbe stata tramandata fino alla più lontana posterità. 

 

La casa di Farinelli

 

Sabato, 25 agosto 1770.

Passai la mattina con Padre Martini nella sua biblioteca e poi ci recammo insieme a pranzo dal signor Farinelli, compiendo il tragitto, assai gradevole, fino al suo <palazzo> o <villa>, sulla carrozza che egli aveva messo a nostra disposizione. Ero felice di trovarmi in compagnia di questi due uomini eccezionali.
La casa è nuova e non ancora del tutto ultimata anche se è stata iniziata subito dopo il ritorno del cantante dalla Spagna alla conclusione della sua carriera. La campagna intorno alla casa è piatta, e sebbene i dintorni di questa città siano forse tra i più fertili d’Italia, si direbbe che gli abitanti non possiedano alcun gusto nei loro giardini; comunque dalla villa del signor Farinelli si gode una bellissima vista su Bologna e sulle collinette che la circondano. Prima del pranzo il signor Farinelli mi fece visitare la casa che è arredata in modo signorile ed elegante.
Alle pareti della grande sala dove vi è il biliardo sono appesi i ritratti di alti personaggi, quasi tutti principi regnanti che sono stati suoi protettori, e tra questi due imperatori, un’imperatrice, tre re di Spagna, due principi delle Asturie, un re di Sardegna, un principe di Savoia, un re di Napoli, una principessa delle Asturie, due regine di Spagna ed il Papa Benedetto XIV. In altre sale notai alcuni quadri incantevoli dello Ximenes e del Morillo, due eminenti pittori spagnuoli, e dello Spagnoletto.
Mi mostrò pure alcuni suoi ritratti dipinti in quel periodo, uno dell’Amiconi, di cui esiste anche una copia. Possedeva pure un quadro che ritraeva un piccolo spazzacamino inglese che gioca con un gatto, e dello stesso autore una venditrice di mele con una carriola. Mi fece vedere ancora parecchi quadri dipinti in Inghilterra, alla maniera del Tenier, da un uomo in prigione per debiti di cui non ricordo più il nome; mi disse che questi quadri gli erano stati donati da Lord Chesterfield con estrema gentilezza.
Possiede anche un curioso orologio inglese a pendolo con figurine che suonano insieme la chitarra, il violino e il violoncello, e le cui braccia e dita sono messe in movimento dallo stesso pendolo.
Parla molto del rispetto e della gratitudine che deve agli inglesi. La cena fu servita in un elegante servizio di piatti fabbricato in Inghilterra al tempo in cui egli ci viveva.
Il signor Farinelli da molto tempo non canta più, ma si diletta ancora con il clavicembalo e la viola d’amour; possiede un gran numero di clavicembali costruiti in paesi diversi, a cui ha dato il nome dei più grandi pittori italiani, secondo la preferenza che accorda ad ognuno di essi. Il suo favorito è un <piano forte> costruito a Firenze nel 1730 su cui è inciso in lettere d’oro Raffaello d’Urbino; e poi Coreggio, Tiziano, Guido, ecc. Suonò a lungo sul suo Raffaello con grande precisione e delicatezza; per questo strumento egli ha composto parecchi pezzi assai eleganti. Il secondo strumento, in ordine di preferenza, è un clavicembalo che gli fu donato dalla defunta regina di Spagna che era stata allieva di Scarlatti sia in Portogallo sia in Spagna; fu per questa principessa che Scarlatti scrisse i suoi due primi libri di esercizi, ed a lei fu dedicata la loro prima edizione, stampata a Venezia, quando era principessa delle Asturie. Questo clavicembalo, costruito in Spagna, possiede più voce degli altri. Il terzo strumento preferito è stato pure costruito in Spagna sotto la sua guida; possiede, come quello del conte Taxis di Venezia tastiere mobili per mezzo delle quali l’esecutore può trasporre una musica sia più in alto sia più in basso. Questi clavicembali spagnoli hanno neri i tasti che corrispondono ai suoni naturali mentre i bemolli e i diesis sono ricoperti di madreperla; sono costruiti secondo il modello italiano, tutti in legno di cedro, eccetto la cassa armonica, e il tutto chiuso in una seconda cassa.
Il signor Farinelli conversò volentieri e fu assai comunicativo; parlò familiarmente dei vecchi tempi, soprattutto di quelli passati in Inghilterra. Credo che, se fosse scritta bene, la sua vita potrebbe interessare un vasto pubblico poiché è stata assai varia e trascorsa in buona parte al servizio delle principali corti europee; ma poiché fortunatamente è ben lontana ancora dalla sua fine, non è il caso di parlarne adesso. Riferirò tuttavia alcuni aneddoti raccolti durante la conversazione con lui e con padre Martini, che soddisferanno in qualche misura la curiosità del lettore.  

 

Vita di Farinelli 

 

Carlo Broschi, detto Farinelli, nacque a Napoli nel 1705; ebbe i primi rudimenti musicali dal padre, signor Broschi, e poi studiò sotto la guida di Porpora che lo accompagnò nei suoi viaggi. Aveva diciassette anni quando lasciò Napoli per recarsi a Roma; qui, per tutto il periodo in cui una certa opera tenne cartellone, aveva luogo ogni sera una gara tra lui ed un famoso esecutore di tromba che accompagnava col suo strumento un’aria cantata dal Farinelli. Sembrò sulle prime un’emulazione amichevole, di carattere semplicemente sportivo, fino a che il pubblico incominciò ad interessarsi alla contesa, parteggiando per l’uno o per l’altro: dopo che ognuno, separatamente, ebbe emessa una nota per dar prova della forza dei propri polmoni tentando di superare il rivale in vivacità e in potenza, eseguirono insieme un crescendo ed un trillo a distanza di una terza e lo sostennero a lungo mentre il pubblico ne attendeva ansiosamente la fine poiché entrambi sembravano esausti; e infatti il suonatore di tromba, sfinito, cedette, convinto tuttavia che il SUO antagonista fosse altrettanto stanco e che tutto si sarebbe concluso in  una battaglia senza vincitori né vinti. Farinelli, invece, mostrando di aver finora soltanto scherzato col suo competitore, col sorriso sulle labbra, senza riprender fiato e con intatto vigore, non soltanto emise una nota, la rinforzò e trillò, ma eseguì i più rapidi e difficili gorgheggi, e fu messo a tacere soltanto dalle acclamazioni del pubblico. Si può dire che da quel momento nacque quella superiorità che conservò poi indiscussa sui suoi contemporanei.
Nella giovinezza era conosciuto in tutta Italia come <il Ragazzo>.
Da Roma si recò poi a Bologna dove ebbe la fortuna di a Bernacchi, un allievo del celebre Pistocco, nativo di quella città, che era considerato in quel tempo il migliore cantante d’Italia per il la conoscenza della sua arte, ed i cui allievi diedero in seguito fama alla scuola di Bologna.
Di là passò a Venezia e poi a Vienna; e dovunque le sue qualità furono considerate prodigiose. Mi narrò che a Vienna, dove si recò tre volte in periodi diversi, e dove ricevette grandi onori dall’imperatore Carlo VI, un consiglio di quel principe gli fu più utile di tutti insegnamenti dei suoi maestri e dell’esempio dei suoi rivali in celebrità: Sua Maestà imperiale ebbe la condiscendenza di fargli osservare un con grande dolcezza e affabilità, che il suo canto né commuovevaquietava l’animo come il canto di ogni altro mortale; tutto in lui era come soprannaturale. “Quei salti giganteschi” egli disse “quelle quei passaggi interminabili, ces notes qui ne finissent jamais, hanno solamente l’effetto di sorprendere, ma ora è tempo che cerchiate di piacere; voi siete troppo prodigo dei doni che la natura vi ha concesso, ma se desiderate toccare il cuore dovete seguire una strada più facile e più semplice”. Queste poche parole ebbero come conseguenza un mutamento radicale nel suo modo di cantare: da allora seppe alternare il patetico al vivace, il semplice al sublime e riuscì così sia ad affascinare sia a stupire ogni ascoltatore.
Nel 1734 si recò in Inghilterra dove tutti coloro che l’ascoltarono sentirono parlare di lui sanno quale effetto producesse sul pubblico il suo talento straordinario: era un’estasi, un rapimento, un incanto.
Nella celebre aria Son qual Nave, composta dal fratello [Riccardo], la prima nota era emessa con tal delicatezza, rafforzata insensibilmente raggiungere un volume incredibile, e poi diminuita nello stesso modo, fino a divenire un soffio, che era applaudito per almeno cinque minuti. Egli riprendeva poi il canto con tale vivacità e rapidità di esecuzione che i violinisti di quel tempo duravano fatica a tenergli dietro. Insomma si può dire di lui che superava tutti gli altri cantanti quanto il celebre cavallo Childers superava ogni altro cavallo da corsa; ma egli non eccelleva soltanto in velocità, poiché possedeva insieme le migliori qualità di un grande cantante. Nella sua voce si trovavano riunite la forza, la dolcezza e l’estensione, e nel suo stile la tenerezza, la grazia e l’agilità. Veramente possedeva qualità tali che non si erano mai trovate riunite prima, né lo furono dopo di lui, in alcun altro essere umano. Qualità vincenti che hanno saputo soggiogare ogni ascoltatore, il dotto e l’ignorante, l’amico ed il nemico.
Forte di queste doti, nel 1737 si recò in Spagna con il fermo proposito però di ritornare in Inghilterra essendosi impegnato con la nobiltà, che in quei periodo aveva la direzione del teatro d’opera, a cantare nella successiva stagione. Durante il suo viaggio verso la Spagna, cantò per il re di Francia a Parigi, dove, secondo Riccoboni, riuscì ad avvincere persino i francesi che in quel tempo detestavano tutti la musica italiana. Ma fin dal primo giorno in cui cantò davanti ai sovrani di Spagna, fu deciso che sarebbe rimasto al servizio della corte cui rimase in seguito legato tanto che non gli fu più permesso di cantare in pubblico. Gli fu accordata una pensione annua di oltre duemila sterline.
Mi raccontò che per i primi dieci anni della sua permanenza alla corte di Spagna, mentre era in vita Filippo V, egli cantò ogni sera a quel sovrano le stesse quattro arie, di cui due erano state composte da Hasse:
Pallido il sole e Per questo dolce amplesso. Ho dimenticato il titolo delle altre due, ma una era un minuetto che egli variava a suo piacere.
Dopo la morte di Filippo V, continuò a godere il favore del suo successore, Ferdinando VI, che lo insignì nel 1750 dell’ordine di Calatrava; in seguito però il suo compito divenne meno assiduo e faticoso poiché era riuscito a convincere questo principe ad allestire spettacoli d’opera, e ciò rappresentava per lui un gran sollievo. Gli fu affidato il compito di dirigere questi spettacoli mentre dall’Italia giungevano i migliori compositori e cantanti del tempo, e Metastasio ne scriveva i libretti. Mi mostrò a casa sua quattro scene tolte da Didone e da Nitetti, dipinte da Amicone che lo aveva seguito in Inghilterra e poi in Spagna dove morì.
Quando l’attuale re di Spagna salì al trono, egli fu costretto a lasciare il regno; gli fu però conservata una buona pensione e gli fu concesso di portare con sé tutte le cose sue. L’arredamento della sua casa è assai ricco perché è composto quasi interamente dai doni ricevuti da alti personaggi. Pare che egli si rammarichi assai di esser stato costretto a cercare una nuova residenza dopo aver vissuto per ventiquattro anni in Spagna, dove si era formato una cerchia di relazioni e di amicizie che gli erano care. La prudenza e l’equilibrio del suo carattere sono provati dal fatto che egli per tanto tempo ha saputo conservare il favore del re - distinzione odiosa a tutti - in un paese e presso una corte dove predominano la gelosia e l’orgoglio, senza che mai abbia incontrato la minima ostilità degli spagnoli né si sia urtato con alcuno.
Quando tornò in Italia nel 1761 tutti i suoi vecchi amici, i parenti e le conoscenze o erano morti o avevano mutato residenza per cui dovette, si può dire, ricominciare una seconda vita, senza più il fascino della gioventù per crearsi nuovi legami, né le doti di un tempo per conquistarsi nuovi protettori.
Dice che lui e Metastasio erano stati gemelli nel dividersi il favore del pubblico, che erano venuti al mondo insieme essendo stato lui cantare la prima opera composta dal poeta. Facendomi visitare la sua casa mi addito un quadro originale, dipinto in quel tempo dall’ Amiconi, in cui sono ritratti Metastasio, lui stesso, la famosa cantante Faustina e l’ Amiconi.
Dalla sua conversazione mi parve di capire che era stata la corte di Spagna ad imporgli di fissare a Bologna la sua residenza; anche se gli italiani affermano che egli aveva progettato in un primo tempo di stabilirsi a Napoli, sua città natale, e che in seguito ne fosse stato distolto dalle molte e importune pretese dei suoi parenti. Comunque sia, egli tiene con se una sorella e due figli di lei, di cui uno e ancora un bambino e lo ama teneramente nonostante abbia un cattivo carattere, sia malaticcio, poco intelligente e scontroso; ciò prova come egli fosse portato alle cure ed agli affetti familiari. Disse di rammaricarsi che ragioni politiche gli avessero impedito di stabilirsi in Inghilterra poiché, d Spagna, era questo l’unico paese del mondo in cui avrebbe desiderato trascorrere gli anni che gli rimanevano da vivere.
Avendogli io espresso il desiderio di scrivere la sua vita, o al di inserirne alcune notizie nella mia storia della musica, mi rispose spingendo anche troppo oltre la sua modestia: “Ah, se volete scriver buon libro, non vi venga in mente di riempirlo di notizie riguardanti persone indegne come me”. Egli mi fornì, però, tutti i particolari che desideravo su Domenico Scarlatti e si prestò gentilmente a dettar mentre io li scrivevo sul mio taccuino.
Ricorda ancora qualche parola inglese colta durante il suo soggiorno londinese; mi divertì per buona parte della giornata col racconto delle accoglienze e delle avventure che gli toccarono in quella città; mi riportò una conversazione avuta con la regina Carolina a proposito della Cuzzoni e di Faustina, e mi riferì i particolari della sua prima esibizione alla corte del defunto re Giorgio Il, in cui egli fu accompagna al clavicembalo dalla principessa reale, poi principessa di Orange, quale aveva insistito perché cantasse a prima vista due arie di Handel stampate in chiave diversa e composte in uno stile che non gli era COnsueto. Mi raccontò le vicende del suo viaggio in campagna col duca e la duchessa di Leeds e con Lord Cobham: mi parlò delle contese tra i due teatri d’opera e della posizione assunta dal defunto principe di Galles nei riguardi di quello diretto dalla nobiltà e dalla posizione della regina e delle principesse reali nei riguardi di quello diretto da Handel.
Mi confermò pure la veridicità di questa incredibile storia che avevo spesso sentita e a cui non avevo mai dato credito prima d’ora: quando il Senesino e Farinelli erano entrambi in Inghilterra, non avevano mai avuto occasione di ascoltarsi l’un l’altro poiché cantavano nelle stesse sere in teatri diversi; finché, per uno di quegli improvvisi ed inattesi mutamenti di programma, che spesso avvengono in teatro, toccò loro una sera di dover cantare sullo stesso palcoscenico. Il Senesinò impersonava un furioso tiranno e Farinelli uno sventurato eroe in catene; ma, durante la prima aria, egli addolcì talmente il cuore del feroce tiranno, che il Senesino, dimenticando il suo personaggio, corse da Farinelli e lo abbracciò.
Fu per me questa una giornata deliziosa e memorabile, trascorsa in un’atmosfera cordiale e amichevole con due persone tra le più eminenti e famose d’Europa per ingegno e per talento musicale.

 

Martedì, 28 agosto 1770.

Nel pomeriggio mi recai dal <cavalier> Farinelli per una melanconica visita di congedo. Insistette gentilmente perché mi trattenessi più a lungo a Bologna, e mi rimproverò la mia decisione di ripartire così presto. Lo trovai seduto al suo Raffaello, e insistetti perché suonasse: egli canta sul suo strumento con gusto ed espressione straordinari. Mi rammaricavo veramente di dover lasciare quest’uomo eccezionale e così cordiale. Mi pregò di scrivergli nel caso che durante il mio soggiorno in Italia potesse in qualsiasi modo essermi utile. Restai da lui così a lungo da correre il rischio di rimanere chiuso fuori dalla città di Bologna, poiché le porte si chiudono al cader della notte. »

 

(tratto da Charles Burney: Viaggio musicale in Italia, a cura di E. Fubini, EDT, 1979)

 

 

 

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A cura di  Rodrigo

 

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Ultimo aggiornamento: 17-10-21