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Il Supplizio di Damien
Robert-François Damien, di professione domestico, quarantenne, che
viveva ad Arras, un invasato che nel gennaio del 1757 nella Corte di
marmo a Versailles si avvicinò e colpì il Re con un temperino, a due
lame, una di circa 12 centimetri di lunghezza, l’altra minore, e caso
volle che fosse quest’ultima a colpire il monarca.

Giunse il medico personale del Re, La Matinière: la ferita venne
sondata. Non giungeva fino alla costole, in quanto era superficiale,
grazie anche all’ampio mantello invernale che indossava, quindi il danno
non poteva esser grave ed infatti il Re che subì il colpo, pensava si
trattasse di un semplice pugno.
 
La ferita però sanguinava ancora molto, così si procedette alla
saturazione, ma il pericolo è ancora alto e si pensava che il ferro
potesse esser avvelenato, con delle conseguenze che potevano essere
incalcolabili.

Alla notizia dell’attentato, giungono immediatamente le Mesdames, figlie
del Re, compresa Madame Vittoria che si gettò letteralmente giù dal
letto. Alla vista del sangue esse svennero.
Consapevole della gravità, il Delfino
(qui sotto in cornice dorata) colle lacrime agli occhi
andava su e giù nella stanza accanto,
pronto a dare ordini, e infatti decise di convocare il Consiglio
di Stato dando la comanda al Duca di Richelieu. Nella confusione di
gente che corre a convocare il Consiglio di Stato, Principesse svenute e
persone che tentano di rianimarle, il chirurgo che tentava di espletare
la sua funzione, giunse la Regina. Ed il Re, preso dal senso di colpa,
dal suo capezzale volle chiedere il perdono per le offese arrecatele, un
perdono che si implorava giacchè il Re oramai pensava di esser giunto al
momento della sua dipartita. Anche lei svenne.
Dopo l’operazione il Re era circondato da uno schieramento di preti e di
visitatori, che intasavano la camera. Il Re dava libero sfogo a
confessioni reiterate, durante le quali palesava l’angoscia per i
tormenti che lo aspettavano nell’al di là, nel caso in cui vi dovesse
finire: infatti c’era ancora il pericolo del veleno.
C’era chi infondeva coraggio al Re col buonsenso, mancando Reinette che
non era ammessa al capezzale: si trattava per esempio di un militare in
carriera, Landsmath, che confortò il sovrano: la sua ferita era niente
confronto quelle che aveva subito il militare servendo il Re, e quindi
egli poteva stare tranquillo sulla sua guarigione. Il Re intanto
vaticinizzava un Regno migliore per suo figlio il
Delfino Louis Ferdinand (su in un quadro) mentre Reinette era in
pieno stato d’ansia poiché non sapeva esattamente cosa stava accadendo.
Piangeva e sveniva, piangeva e sveniva….
Si disperava con l’abate Bernis, e scriveva a Roma al conte di
Stainville…
Machault, che lei aveva
aiutato e che riteneva suo amico, le fece visita e freddamente diede il
consiglio di abbandonare la Corte, prima di esservi allontanata. E
avrebbe seguito tale consiglio se non fosse stata dissuasa da Bernis, da
suo fratello il conte di Marigny ed anche da
Madame de Brancas: da un momento all’altro il Re avrebbe potuto
chiamarla.
Nel frattempo però il Re aveva attorno a sé un quadrato che inibiva la
possibilità di richiamare la favorita, costituito da uno schieramento di
preti e dalla famiglia Reale tutta, per cui soprassedette a chiamarla a
sé.
Dopo la visita di cortesia di Machault, egli si dimostrò apertamente
ostile a Reinette.
Nel frattempo d’Argenson (qui sotto), ministro della guerra, si rifiutò
di compiacere Madame de Pompadour in
una richiesta, e cioè di non dire al Re che lei era invisa a
tutta la nazione, cosa che fra l’altro lo avrebbe risparmiato da un
ulteriore dolore nelle condizioni in cui era. Era di una acredine che
Madame de Pompadour gli disse che semmai lei fosse rimasta a Corte lui
se ne sarebbe di certo andato.
Il Re essendo destato dal torpore tuttavia sembra dar ragione a Machault
e d’Argenson poiché convoca molti cortigiani, senza la Pompadour. Tutti
sono dell’idea che la Duchessa oramai aveva finito il suo tempo.
I giorni passano e piano piano il Re si rimette, cammina su un bastone
ma oramai congeda tutti poichè decide di rimanere solo: i preti e le
loro minacce di inferno e di castighi divini non hanno più potere su di
lui, né le diatribe con la Regina e le sottili ragioni dei figli.
Vedendo questa risolutezza alcuni capirono che chi vinse alla fine fosse
la Pompadour.
Sguardo acceso del Re, colorito terreo scomparso, via il bastone e
deambula eretto….a cosa era dovuto ad un cambiamento tanto evidente nel
giro di 4 ore? Semplice bastò un incontro con Madame de Pompadour per
ristabilire il Re non tanto nel corpo quanto nell’animo e farlo tornare
in piene forze come era prima dell’attentato. La ferita del Re si doveva
far guarire dicendogli che era ancora molto amato dal popolo e che la
ferita di Damien aveva sì trafitto la carne ma non aveva intaccato
l’affetto che i suoi sudditi avevano per il Re: questo gli disse la
Marchesa de Pompadour. Era solo un atto di un attentatore singolo, non
una macchinazione del popolo.
Il popolo in effetti aveva reagito bene alla guarigione del Re, ma in
modo meno caloroso rispetto la guarigione del monarca in occasione della
malattia di Metz, e a dire il vero era molto desideroso di sapere che
fine avrebbe fatto Damiens.
Per l’assassino Damiens i guai non erano finiti, iniziati dopo l’arresto
per sapere se aveva dei complici. Qualcuno, molto in alto, per paura che
Damiens facesse il suo nome si premurò di portare della legna affinchè
venisse immediatamente bruciato vivo. Questa legna poi venne usata per
accendere diversi falò per scaldare gli accumuli di persone davanti ai
cancelli di Versailles.
Ma Damiens negò: non aveva complici e la cosa poi si confermò. Le sue
parole furono
“Ho scritto al Re che non era mia intenzione ucciderlo. Ma vi prego:
state attenti al Delfino…si parlerà molto di me. Io sono un nuovo Gesù e
come lui morirò sulla croce”.
Quello che stupì è che Jean Castonnet, domestico di Lagarde de la
Bastide, ed altri sudditi sentiti come testimoni rivelarono che Damiens
li aveva avvicinati ed aveva detto loro “Il Re
presto morirà”.
Ovviamente presero queste parole come quelle dette da un ubriaco.
Durante le prime lesioni della prima tortura, Damiens fa nomi di molti
complici di alta locatura, tranne il Delfino.
Il 18 gennaio 1757 di notte tre carrozze
portano via Damiens, che il Re doveva graziare, ma che per ragioni
politiche il Re decise di farlo processare, verso Parigi.
 
L’aspettava la Torre di Montgomery, nella Cour-de-Mai: giacchè per le
percosse ricevute non poteva camminare, Damines venne chiuso in una
sorta di amaca coperta da un drappo di lana e buttato nella stretta
cella. Ben 70 uomini fuori hanno il compito di sorvegliarlo giorno e
notte. Nessuno può vederlo in viso, ed inoltre chiunque si fosse
avvicinato lungo la strada o alle finestre si doveva sparare a vista.
Il 26 marzo 1757 iniziò il processo con 60
giudici, 5 Principi di sangue, 20 Pari di Francia: venne appurato che
Damiens era un piccolo proprietario d’Artois, impegnato in mansioni di
fiducia presso grandi famiglie, dove venne a sapere della cattiva
condotta del Re: la reintroduzione dell’imposta del ventesimo sui
redditi soverchiando il parere del Parlamento; l’annientamento brutale
dell’opposizione ecclesiastica e la soppressione di due delle 5 Camere
delle Inchieste a lui sfavorevoli.

A queste notizie Damiens si sentì in dovere di fare un gesto innocuo
nella sostanza ma clamoroso che potesse portare alla fine del brutto
stato di cose che il Re aveva posto in essere.
Damiens era colpevole del “crimine di lesa maestà
divina ed umana” e di “parricidio commesso
ai danni del Re”. La grazia del Re non poteva accettarsi in
quanto Damiens avrebbe tolto la vita del Re che appartiene al popolo:
era necessaria una solenne ammenda davanti a Notre Dame, con un cero di
due libbre acceso in mano, momento in cui Damiens doveva chiedere
perdono a Dio, al Re ed alla giustizia francese.

Le ultime ore di vita di Damiens non furono gradevoli:
il 28 marzo 1757, Damiens a Place de Grève subì lo
stesso supplizio di Ravaillac, l’assassino di Enrico IV. Madame de
Pompadour non vi partecipò ma sapeva bene a cosa andava incontro Damiens,
un regicida.
Portato al patibolo, con una folla accalcata per vedere lo spettacolo
che si disputava i posti migliori, la mano destra di Damiens venne
immersa a forza dentro lo zolfo fuso, e la serenità di Damiens
manifestata fino a quel momento, si spezzò con uno straziante urlo di
dolore. Poi si procedette a strappargli dal petto dei lembi di carne con
tenaglie roventi, a seguire poi sulle cosce e sui polpacci.
Piombo fuso fu il tremendo medicamento ai flussi si sangue che sgorgava
dalle ferite, assieme a olio bollente e pece liquefatta.
Damiens non perse conoscenza, ed allora egli fu legato a 4 cavalli: ad
ogni braccio e gamba, venne legato un cavallo. I Cavalli vennero
frustati in 4 direzioni differenti. Damiens non si lamentava, qualche
urlo straziante, ma resisteva. Si persistette per ben un’ora… ma i
cavalli non riescono a squartarlo, non solo, Damiens è ancora conscio ed
ogni tanto volge il viso per baciare il crocefisso che alcuni preti gli
pongono vicino.
Un aneddoto circola su questo momento atroce, ed è quello di Madame de
Préandeau che per ben 12 livree aveva preso in affitto una finestra in
un’ottima posizione per vedere questo supplizio. Ora alle continue
frustate ai cavalli, mentre giocava a carte si lamentò su come questi
poveri cavalli venissero fatti soffrire.
Stanchi di questa scena, i carnefici presero delle scuri, così mani e
gambe vennero staccate dal tronco: prima parte la gamba sinistra, con
applausi degli astanti in prima fila, subito dopo seguono gli altri
arti. Poi tocca all’altra gamba e a ruota nella stessa successione delle
gambe toccò alle braccia. A questo punto Damiens svenne, ma non morì!
I carnefici si preoccuparono di raccogliere le gambe e le braccia per
gettarli nel rogo, seguendo minuziosamente la sentenza che imponeva
“siano ridotte in cenere e la cenere gettata al
vento”. De Croy riportò come mentre accadeva tutto ciò il cuore
di Damiens batteva ancora.
Finito il supplizio, era necessario eliminare i due suoi nemici che
durante la degenza del Re l’avevano umiliata e minacciata.
D’Argenson inoltre non mancava mai di ricordare al Re l’attentato di
Damiens ed inoltre era l’amante di Madame d’Estrades, che la Pompadour
aveva fatto esiliare perché amica infedele ed attentatrice delle scarse
virtù del Re.
Non ci fu molto da lottare, Luigi XV firmò le due destituzioni, di cui
una in tono amabile giacchè Machault tutto sommato era in dovere di
gratitudine ma era colpevole di avergli alienato le simpatie del clero
per la pretesa di tassarlo, mentre la lettera a d’Argenson fu più dura,
giacchè se non ha avuto riguardi per la Pompadour, non l’ha avuta
nemmeno per il Re, dal momento che con il pretesto di una assoluta
sincerità continuava a portare a conoscenza del monarca ogni particolare
e novità sull’attentato di Damiens.
“Monsieur d’Argenson, non essendomi più necessari i vostri servizi, vi
ordino di consegnare le dimissioni dalla vostra carica di Segretario di
Stato alla Guerra e dagli altri vostri incarichi, e di ritirarvi ne
vostro possedimento di Ormes”.

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Marchesa di Pompadour

A cura di
Il Principe del
Cembalo - Faustina da Versailles
Arsace da Versailles
- Rodelinda da Versailles
Arbace - Alessandro
- Andrea
Carla - Stefano -
Rodrigo
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