Giacomo Casanova  

 

Memorie

 

 

Giacomo Casanova

 

 

Storia della mia Vita

 

Volume I - Capitolo XI

Mio breve e movimentato soggiorno ad Ancona.
Cecilia, Marina, Bellino.
La schiava greca del lazzaretto.
Bellino si fa riconoscere

 

Arrivai ad Ancona il 25 febbraio del 1744 sul far e presi alloggio nel migliore albergo. La camera mi piacque e, poiché avevo fame, dissi all'oste che volevo mangiare di grasso. Egli mi rispose che in Quaresima i cristiani mangiano di magro. Replicai che il papa mi aveva dato il permesso di mangiare di grasso. L'oste mi disse di farglielo vedere: gli risposi che me l'aveva dato verbalmente, ma quello si rifiutò di credermi; gli detti dello stupido e allora lui mi disse di andare a cercarmi alloggio altrove. Quest’ultima risposta, davvero inattesa, mi fece andare in bestia. Imprecai e protestai, e chissà cosa non avrei fatto se ad un certo punto non mi fosse comparso sbucando fuori da una camera vicina, un signore dall’aspetto dignitoso e severo che prese a dirmi che avevo torto a voler mangiare di grasso quando ad Ancona i cibi magri erano molto migliori, che avevo torto di pretendere che l'oste credesse che avevo il permesso del papa, che avevo torto, se davvero avevo il permesso, di averlo chiesto alla mia età, che avevo torto di non essermelo fatto mettere per iscritto, che avevo torto a dare dello stupido all’oste che era padrone di non alloggiarmi e, infine, che avevo torto a fare tanto baccano.
Questo tipo che veniva, non richiesto, a immischiarsi nelle mie faccende e, tra l'altro, solo per addossarmi tutti i torti immaginabili, anziché indispormi ulteriormente, mi mise di buon umore.
« Ammetto, signore » gli dissi « tutti i torti mi attribuisce. Ma piove, ho una gran fame e non intendo uscire a quest'ora per andarmi a cercare altro albergo. Perché non mi dà da mangiare lei, al posto dell'oste? »
« No, no! Sono un buon cattolico e osservo il digiuno. Andrò piuttosto a calmare l'oste e vedrà che le servirà una buona cena, anche se di magro. »
Detto questo, scese dabbasso ed io, paragonar la sua calma alla mia intemperanza, riconobbi che mi aveva dato una bella lezione. Dopo qualche minuto, ritornò dicendomi che tutto era sistemato: mi avrebbero portato una buona cena e, se volevo, lui mi avrebbe tenuto compagnia. Gli risposi che era un onore per me e, per indurlo a dirmi il suo nome, dissi il mio qualificandomi come segretario del cardinale Acquaviva.
« Il mio nome è Sancio Pico » mi disse. « Sono castigliano e provveditore dell'esercito di Sua Maestà Cattolica, comandato dal conte di Gages agli ordini del generalissimo duca di Modena. »
Ammirò l'appetito con cui mangiai tutto ciò mi servirono e mi chiese se avevo pranzato. Mi parve sollevato quando gli dissi che ero digiuno.
« Ma la cena » mi chiese « non le farà male »
« Spero anzi che mi faccia bene! »
« Allora lei ha preso in giro il papa! Ma venga con me nella camera qui accanto. Avrà il piacere di ascoltare della buona musica. Ci abita una prima attrice »
Incuriosito e attratto dalla parola attrice, lo seguii.
Seduta a un tavolo vidi una donna in età che stava cenando con due ragazze e due ragazzi, ma cercai invano l'attrice, finché non mi presentò come tale uno dei due ragazzi, una personcina incantevole, che non poteva avere che 16 o 17 anni. Pensai fosse il "castrato" che sosteneva il ruolo di prima attrice al teatro di Ancona, dove vigevano le stesse regole che nei teatri romani.
La madre mi presentò anche l'altro figlio, anch'egli piuttosto bello, ma non castrato, che si chiamava Petronio e recitava come prima ballerina, e le due ragazze: una, Cecilia, 12enne, studiava musica, e Marina, 11enne, faceva la ballerina. Entrambe erano molto carine. La famigliuola era di Bologna e campava sfruttando il talento dei suoi giovani membri, per i quali bontà e allegria tenevano il posto della ricchezza.
Cedendo alle insistenze di don Sancio, Bellino, il castrato, andò a sedersi al clavicembalo e cantò, con voce angelica e con affascinante grazia, un’aria. Lo spagnolo ascoltava ad occhi chiusi, come in estasi. Io ben lungi dal tenere gli occhi chiusi, ammiravo quelli di Bellino che, neri come il carbone, emanavano un fuoco che mi bruciava l'anima. Il giovane, mi ricordava nei tratti fisici donna Lucrezia e nei modi la marchesa G. Il suo viso, per altro, mi pareva più quello di una donna che quello di un ragazzo, e lo stesso abito maschile che indossava non impediva di scorgere il gonfiore del petto. Così, nonostante me l’avessero presentato come un maschio, mi misi in testa che fosse in realtà una fanciulla travestita e perciò non soffocai dentro di me gli stimoli del desiderio che la sua presenza mi ispirava.
Passammo insieme 2 ore piacevoli e poi io e don Sancio salutammo la bella compagnia e ci ritirammo.
Accompagnandomi in camera, don Sancio mi avvertì che l’indomani mattina sarebbe partito per Senigallia insieme all’abate Vilmarcati e che sarebbe stato di ritorno di lì a 2 giorni, in tempo per la cena. Gli augurai buon viaggio e gli dissi che forse ci saremmo incontrati per strada, perché mi sarei fermato ad Ancona solo il tempo necessario per presentare al banchiere la mia lettera di cambio e farmene dare una per Bologna e che contavo di partire proprio di lì a due giorni.
Andai a letto turbato dall'impressione che mi aveva fatto Bellino. In verità, mi sarebbe spiaciuto dovermene andare senza avergli dimostrato che ero sensibile alla sua bellezza e che il suo travestimento non mi aveva ingannato, e così, il mattino seguente, appena aperto l'uscio, fui contento di vedermelo entrare camera per offrirsi come servitore, invece del domestico che avrei dovuto assumere, suo fratello. Accettai senz'altro e cominciai col mandare il giovane Petronio a prendere il caffè per tutta la famiglia.
Feci sedere Bellino sul letto con l'intenzione di trattarlo come una ragazza, ma proprio in quel momento entrarono le due sorelline. Il mio progetto andò a vuoto, ma non potevo dirmi del tutto di dispiaciuto: davanti ai miei occhi era tutto uno spettacolo di gaiezza, di bellezza, di dolce familiarità, di brio teatrale, di simpatici scherzi e di smorfiette bolognesi che non conoscevo e che mi entusiasmavano. Le 2 ragazzine, infatti, per quanto giovanissime erano 2 boccioli di rose e portavano già sui loro candidi petti i segni di una precoce pubertà, e le avrei senza dubbio preferite a Bellino, se non mi fossi messo che Bellino era una ragazza come loro.
Petronio arrivò con il caffè, ce lo servì e poi andò a portarne anche a sua madre, che non usciva camera. Questo Petronio era un vero Gitone di professione, un tipo abbastanza diffuso in quel bizzarro paese che è l'Italia, dove l'intolleranza in materia non è così irragionevole come in Inghilterra, nè così severa come in Spagna. Gli diedi uno zecchino per pagare il caffè e quando gli dissi di tenersi i 18 paoli di resto, mi fece chiaramente capire le sue vere inclinazioni dandomi un bel bacio a bocca schiusa. Certo voleva dimostrarmi la sua riconoscenza e forse pensava amassi quel genere di effusioni, ma mi fu facile disilluderlo, con una smorfia di disgusto, anche se non mi parve che ci rimanesse male. Gli dissi di ordinare il pranzo per sei, ma lui mi rispose che dovevo ordinare solo per quattro, perché doveva tener compagnia alla sua cara mamma che mangiava a letto.
Due minuti dopo, salì l'oste a dirmi che le persone avevo invitato a pranzo mangiavano almeno per due e che, così stando le cose, mi avrebbe servito solo se ero disposto a pagare sei paoli a commensale. Gli dissi che andava bene e che accettavo.
Quindi, ritenni doveroso andare ad augurare il buon giorno alla compiacente madre. Entrai nella sua stanza e le feci i miei complimenti per la sua incantevole famiglia. Lei mi ringraziò per i diciotto paoli che avevo dato al suo figliuolo e prese a confidarmi i suoi guai.
« L’impresario Rocco Argenti » mi disse « è un delinquente. Mi ha dato solo cinquanta scudi romani per tutto il carnevale. Naturalmente li abbiamo spesi per vivere adesso, se vorremo tornare a Bologna, dovremo viaggiare a piedi o chiedere l'elemosina. »
Le regalai un doblone da otto che la fece piangere gliene promisi un altro in cambio di una confidenza.
« Confessi che Bellino è una ragazza » le dissi. « « Le assicuro che non lo è, anche se ne ha l'aspetto. Tant’è che ha dovuto farsi visitare. »
« Da chi? »
« Dal reverendissimo confessore di monsignor vescovo. Può andare a chiedere a lui, se proprio non ci crede. »
« No, non ci credo e non ci crederò se non dopo averlo visitato io stesso. »
« Faccia come vuole, ma in coscienza non posso immischiarmi, perché, Dio mi perdoni, non conosco le sue intenzioni. »
Tornai in camera mia e mandai Petronio a rare una bottiglia di vino di Cipro. Quando presi i sette zecchini di resto del doblone che gli avevo dato e li divisi tra Bellino, Cecilia e Marina e poi pregai le due ragazze di lasciarmi solo con il loro fratello.
« Caro Bellino, sono sicuro che non sei del sesso.»
« Sì che sono del suo sesso, ma castrato. Del resto, sono già stato visitato. »
« Lasciati visitare anche da me, e ti regalo doblone. »
« No, perché è evidente che lei mi ama, e la religione me lo proibisce. »
« Però non hai avuto simili scrupoli con il confessore del vescovo. »
«Era un vecchio, e poi lui ha dato solo un'occhiata di sfuggita alla mia disgraziata corformazione. »
Allungai una mano, ma lui mi respinse e si alzò.
Questa ostinazione mi mise di cattivo umore, perché avevo già speso una quindicina di zecchini per soddisfare la mia curiosità. Mi sedetti a tavola col broncio, ma l'appetito delle tre belle creature mi restituì il mio buon umore e pensai bene di rifarmi con le due ragazze.
Così, mentre eravamo seduti accanto al fuoco a mangiare le castagne, cominciai a distribuire baci a tutti e tre e poi pensai a toccare e a baciare i seni nascenti di Cecilia e Marina. Bellino sorrideva compiaciuto e non fece niente per impedire alla mia mano di insinuarsi sotto la sua camicia e di afferrare un seno che mi tolse ogni dubbio.
« Con un seno così » gli dissi « non puoi essere che una ragazza. E non è il caso che tu neghi! »
« No, è il difetto di tutti noialtri castrati. »
« Lo so, ma me ne intendo abbastanza per riconoscere la differenza. Questo seno d'alabastro, mio caro Bellino, è il seno delizioso di una ragazza di 17 anni. »
Ero tutto un fuoco e, vedendo che lui non faceva per fermare la mia mano che godeva di tanta grazia, volli accostare al seno anche le mie labbra e scolorite dall'eccesso della passione; ma quell’impostore, come se si fosse accorto solo allora del piacere che provavo, si alzò e mi piantò in asso.
Mi ritrovai bruciante più di desiderio che di collera e, per calmarmi, pregai Cecilia, scolara di Bellino, di cantarmi qualche aria napoletana. Poi uscii per recarmi dal raguseo Bucchetti, che in cambio della mia lettera di credito me ne diede una a vista per Bologna. Di ritorno all'albergo, cenai in compagnia delle ragazze con un bel piatto di maccheroni e poi, dopo aver pregato Petronio di farmi trovare pronta per l’indomani mattina una carrozza di posta perché avevo deciso
di partite, salutai tutti e mi preparai ad andare a letto.
Mentre stavo per chiudere l'uscio, Cecilia, mezza svestita, venne a dirmi che Bellino mi sarebbe stato grato se lo avessi portato con me fino a Rimini dove aveva un contratto per cantare nell'opera che andava in scena per Pasqua.
« Va a dirgli, angioletto, che sono pronto a fargli questo piacere se prima lui è disposto a mostrarmi, se è maschio o femmina. »
Andò e tornò a dirmi che purtroppo Bellino era già a letto, ma se avessi rimandato la mia partenza di un sol giorno, era disposto a soddisfare la mia curiosità.
« Dimmi tu la verità e ti regalo sei zecchini. »
« Mi spiace, ma non posso, perché non l'ho mai visto nudo e non ci potrei giurare. Comunque, deve essere per forza un maschio, altrimenti non avrebbe potuto cantare in questa città. »
« Benissimo. Partirò dopodomani, se passerai la notte con me. »
« Allora mi ami? »
« Molto. Ma tu preparati ad esser gentile »
« Sarò molto gentile, perché anch'io ti amo Vado ad avvertire mia madre. »
« Tu hai già certamente avuto un amante »
« Mai! »
Uscì e tornò poco dopo tutta contenta, che sua madre mi giudicava una persona onesta. Chiuse la porta e venne a gettarsi tra le mie braccia, tutta calda e appassionata. Mi accorsi che forse era vergine ma, siccome non ne ero innamorato, non vi badai. L'amore, in effetti, è il divino condimento che rende deliziosa questa pietanza: Cecilia era incantevole, ma non avevo avuto il tempo di desiderarla e potei dirle: « Hai fatto la mia felicità ». Fu lei a dirmelo, ma non ne fui molto lusingato, finsi di crederle. Mi addormentai tra le sue braccia al risveglio, dopo averle affettuosamente augurato il buongiorno, le regalai tre dobloni che probabilmente gradì più di qualsiasi promessa di eterna fedeltà, assurda promessa che l'uomo non dovrebbe mai fare, nemmeno alla più bella donna.
Cecilia corse a portare il suo tesoro alla madre che piangendo di gioia, rafforzò la sua fiducia nella Divina Provvidenza ed io mandai a chiamare l’oste per ordinargli una cena abbondante per cinque, perché ero sicuro che il nobile don Sancio, che sarebbe arrivato verso sera, non mi avrebbe rifiutato l'onore di cenare con me.
A mezzogiorno non pranzai, ma la famiglia bolognese non ebbe bisogno di assoggettarsi ad un tal regime per avere appetito a cena. Dopo pranzo feci venire da me Bellino, per ricordargli la sua promessa, ma lui mi disse ridendo che la giornata non era ancora finita e che, comunque, era sicuro di venire con me a Rimini. Gli chiesi se voleva fare una passeggiata con me e lui andò a vestirsi. Mentre lo aspettavo, sopraggiunse Marina che, con aria mortificata, mi chiese che cosa mai avesse fatto per meritarsi il mio disprezzo.
« Cecilia ha passato con lei la notte e Bellino parte con lei domani: io sono la sola sfortunata. »
« Vuoi del denaro? »
« No, la amo. »
« Ma sei troppo piccola... »
« L'età non conta... Sono più formata di mia sorella. »
« E magari hai anche un amante... »
« Oh, questo no! »
« Benissimo! Vedremo stanotte. »
« Allora vado a dire alla mamma di preparare le lenzuola per domani, perché altrimenti la serva dell’albergo scoprirebbe tutto. »
Questi scherzi mi divertivano un mondo.
Al porto, dove andai con Bellino, comprai un bariletto di ostriche dell'arsenale di Venezia per fare onore a don Sancio e lo feci mandare all'albergo. Poi condussi Bellino alla rada e con una feluca mi feci portare a bordo di una nave di linea veneziana che aveva appena finito la quarantena, ma non ci trovai nessuno di mia conoscenza. Salii quindi a bordo di un vascello turco che stava per far vela alla volta di Alessandria e la prima persona che vidi fu la bella greca che avevo lasciato sette mesi prima nel lazzaretto di Ancona.
Stava accanto al vecchio capitano e io fingendo di non conoscerla, chiesi al capitano se avesse delle belle mercanzie da vendere. Il capitano ci condusse nella sua cabina e aprì i suoi bauli, mentre io leggevo negli occhi della greca la gioia di rivedermi.
Tutto ciò che il turco mi mostrò non mi andava, ma gli dissi che avrei comperato volentieri qualcosa che fosse piaciuto alla sua bella moglie. Il capitano rise, la donna gli disse qualcosa in turco e lui se ne andò. Allora la greca corse ad abbracciarmi e stringendosi al seno esclamò:
« Ecco il momento tanto atteso! »
In un impeto di coraggio non inferiore al suo, sedetti, me la tirai addosso e in meno di un minuto le feci quello che il suo padrone non le aveva fatto in cinque anni. Colto il frutto, stavo assapora dolo e avevo bisogno almeno di un altro minuto inghiottirlo, quando la sventurata greca, sentendo ritornare il padrone, scivolò fuori dalle mie braccia mettendosi davanti a me mi diede il tempo di rimettermi a posto senza che il turco potesse vedere disordine in cui ero e che avrebbe potuto costarmi la vita o, per aggiustare le cose amichevolmente, tutto il mio denaro. La situazione era piuttosto drammatica, ma la faccia stupita di Bellino, che se ne stava immobile e tremante di paura in un angolo, mi fece scoppiare a ridere.
Le cianfrusaglie che la bella schiava scelse mi costarono solo venti o trenta zecchini. «Spolaitis» disse nella lingua del suo paese, quando il padrone le disse di baciarmi, e scappò via coprendosi il volto. Me ne andai più triste che allegro, compiangendo quella incantevole creatura che il cielo, nonostante fosse così coraggiosa, si era ostinato a non accontentare che a mezzo. Quando fummo nella feluca, Bellino, riavutosi dalla paura, mi disse che lo avevo fatto assistere ad uno spettacolo incredibile, che, però, gli dava una strana idea del mio carattere. Quanto alla greca, invece, non ci capiva nulla, a meno che io non gli avessi detto che le donne del suo paese erano tutte come lei, nel qual caso, concluse, esse dovevano essere felici.
« Tu credi allora » gli dissi « che le civette siano più felici? »
« No, no. A me non piace né l'uno né l'altro tipo di donna. Per me una donna deve cedere all'amore in buona fede e deve arrendersi dopo avere lottato ton se stessa. Non mi va che per obbedire al primo impulso, si abbandoni al primo che le piace come una cagna che segue solo l'istinto. Questa greca, certo, ha dimostrato senza possibilità di dubbio che lei le piace, ma nello stesso tempo le ha dato una perfetta dimostrazione della sua brutalità e, anche, di una sfacciataggine che la esponeva alla vergogna d'essere respinta, perché non poteva sapere di esserle piaciuta come le era piaciuto lei. E’ molto bella e tutto è andato bene, ma la cosa mi ha molto turbato. »
Avrei potuto calmare Bellino e ribattere le sue ragioni raccontandogli tutta la storia, ma non mi conveniva. Infatti, se, come pensavo, era una ragazza, avevo tutto l'interesse a convincerla che attribuivo, poca importanza a tutta la faccenda e che non valeva la pena di fare la minima fatica per impedire che avesse conseguenze.
Facemmo ritorno all'albergo e sull'imbrunire, quando nel cortile don Sancio con la sua carrozza,
gli andai incontro e mi scusai di aver dato per sicuro avrebbe fatto l'onore di cenare con Bellino e con me. Don Sancio, con dignità e con cortesia, rispose che anzi ero stato molto gentile e accettò.
I cibi squisiti e ben cucinati, i buoni vini di Spagna, le belle ostriche e soprattutto l'allegria e le voci di Bellino e Cecilia, che ci cantarono duetti e seguidillas, fecero passare allo spagnolo cinque ore deliziose.
A mezzanotte, al momento di separarci, mi disse che non avrebbe potuto considerarsi completamente soddisfatto se prima di coricarsi non avesse avuto l'assicurazione che avrei cenato con lui il giorno dopo in camera sua con tutta la compagnia. Si trattava di rimandare la mia partenza di un altro giorno, ma accettai, senza stupirlo.
Appena Don Sancio se ne fu andato, sollecitai Bellino a mantenere la parola che mi aveva dato, ma mi rispose che Marina mi aspettava e che avremmo avuto il tempo di stare insieme l'indomani, e se ne andò.
Rimasi così solo con Marina che, tutta contenta chiuse la porta.
Marina era più formata di Cecilia, nonostante più giovane, e, come dimostrava l'intensità dello sguardo, si sentiva in dovere di convincermi che meritava d'esser preferita a sua sorella. Tanto per cominciare, forse temendo che la notte prima mi fossi esaurito e che non potessi darle ciò che si meritava, prese ad espormi tutte le sue idee sull'amore, mi raccontò nei particolari tutto quello che sapeva fare, ostentò tutta la sua scienza e mi specificò tutte le occasioni che le si erano offerte per conoscere i misteri dell'amore e per farsi un'idea delle gioie che esso offriva e i mezzi di cui si era servita per gustarne un po’. Da tutti quei suoi discorsi, capii che temeva che io non trovandola vergine, la rimproverassi. I suoi ingenui timori mi piacquero e mi divertii a rassicurarla dicendole che la verginità delle ragazze era solo sciocca fantasia, perché la maggior parte non ne ricevuto dalla natura nemmeno il più piccolo segno e misi in ridicolo quelli che ne facevano una questione d'onore.
Le mie teorie le piacquero e la indussero ad abbandonarsi fiduciosa tra le mie braccia. Effettivamente si dimostrò superiore in tutto a sua sorella e quando glielo dissi ne fu fiera. Ma quando pretese di farmi toccare il colmo della felicità dicendomi che avrebbe passato tutta la notte con me senza dormire, la sconsigliai, dimostrandole che ci avremmo rimesso, perché se avessimo accordato alla natura la dolce pausa del sonno, essa si sarebbe mostrata riconoscente al nostro risveglio, accrescendo la forza del suo ardore.
Di fatto, dopo una bella dormita, al mattino appena svegli, rinnovammo la festa e poi Marina mi lasciò contentissima dei tre dobloni che nella sua gioia corse portare alla madre, cui crebbe infinitamente il desiderio di contrarre obblighi sempre maggiori con la Divina Provvidenza.
Uscii per andare a farmi dare un po' di soldi da Bucchetti, perché non potevo prevedere ciò che mi sarebbe potuto accadere durante il viaggio a Bologna.
Mi ero divertito, ma avevo speso troppo, e mi rimaneva ancora Bellino che, se era femmina, non doveva trovarmi meno generoso di quanto ero stato con le sorelle. Comunque, la cosa sarebbe venuta senza dubbio in chiaro quel giorno, e io non dubitavo del risultato.
Quanti sostengono che la vita è un insieme di disgrazie e anzi, che la vita stessa è una disgrazia, sono, a mio giudizio, lontani dal vero. A parte il fatto che se sostengono che la vita è un male sono costretti anche ammettere che la morte, essendo il contrario è un bene, il che è per lo meno assurdo, è chiaro che costoro sono delle persone povere e malate che non hanno un soldo in tasca e che non sanno cosa voglia dire stringere tra le braccia delle Cecilie e delle Marine. La loro, in verità, è una genia di pessimisti che può essere esistita solo tra filosofi pitocchi e teologi bricconi o atrabiliari. Se il piacere esiste e se si può goderne soltanto in vita, la vita è gioia. Ci sono le disgrazie, lo so bene, ma l'esistenza istessa di queste disgrazie prova che il bene è di gran lunga maggiore. Io, ad esempio, sono infinitamente compiaciuto quando mi trovo in una camera buia e vedo la luce al di là di una finestra che si apre su un orizzonte sterminato.
All’ora di cena, andai in camera di don Sancio che era solo. La camera era molto elegante, la tavola era coperta di vasellame d'argento e i domestici erano in livrea. Poco dopo arrivarono Bellino, Cecilia e Marina. Bellino, per capriccio o per artificio, si era vestito da ragazza: le due sorelline erano molto carine ma lui le offuscava e in quel momento fui così sicuro del suo sesso che avrei scommesso la vita contro un paolo. Non era possibile immaginare una ragazza più bella.
«Lei è convinto » chiesi a don Sancio « che Bellino non è una ragazza? »
« Ragazza o ragazzo, che importa? Credo che sia un bellissimo castrato. Ne ho visti altri belli come lui.»
«Ne è proprio sicuro? »
« Valgame Dios! Non ho alcuna voglia di assicurarmene. »
Rispettai nello spagnolo la saggezza che a me mancava e non replicai, ma a tavola non mi riuscì di staccare gli occhi da quella creatura che la mia natura peccaminosa mi costringeva ad amare e a credere del sesso di cui avevo bisogno che fosse.
La cena di don Sancio fu squisita e, naturalmente, migliore della mia, anche perché altrimenti lui si sarebbe creduto disonorato. Ci ammannì tartufi bianchi, frutti di mare di diverse qualità, i migliori pesci dell'Adriatico, Champagne naturale, Peralta, Xeres e Pedro Ximenes.
Dopo cena, Bellino cantò così deliziosamente da farci smarrire il poco di ragione che ci era rimasta dopo vini tanto squisiti. I suoi gesti, l'espressione dei suoi occhi, il suo incedere, le sue maniere, la sua aria, la sua fisionomia, la sua voce e soprattutto il mio istinto, che non poteva farmi provare per un castrato quello che provavo per lui, tutto mi confermava nella mia idea, ma per averne la sicurezza avrei dovuto accertarmene con i miei occhi.
Dopo aver adeguatamente ringraziato il nobile castigliano, gli augurammo un'ottima notte ed entrammo in camera mia, dove Bellino avrebbe dovuto mantenere la parola o meritarsi il mio disprezzo e rassegnarsi a vedermi partire solo il mattino dopo. Presi Bellino perla mano, lo feci sedere accanto a me davanti al fuoco e pregai Cecilia e Marina di lasciarci soli. Appena le due ragazze se ne furono andate, dissi a Bellino:
« Se sei del mio sesso, ce la sbrigheremo in un attimo. Se invece sei quello che penso, dipenderà soltanto da te passare la notte con me. Domani mattina ti darò cento zecchini e partiremo insieme. »
« Lei partirà solo, e avrà la generosità di perdonare la mia debolezza, perché non posso mantenere la parola. Sono castrato e non posso risolvermi a lasciarle vedere la mia vergogna né ad espormi alle orribili conseguenze che questo chiarimento potrebbe avere. »
« Non ci saranno conseguenze. Quando ti avrò visto o toccato, sarò io stesso a pregarti di ritirarti in camera tua. Partiremo domani mattina calmissimi e non parleremo più della faccenda. »
« No, è deciso. Non posso soddisfare la sua curiosità. »
A queste parole, fui sul punto di cedere all'ira, ma mi controllai e tentai con dolcezza di arrivare con la mano là dove avrei trovato la soluzione del problema, ma Bellino usò la sua per rendermi impossibile la bramata perquisizione.
« Togli la mano, caro Bellino... »
«No, assolutamente no! Lei è in uno stato che mi spaventa. Me lo aspettavo e non acconsentirò mai ad una cosa così orribile. Adesso le mando le mie sorelle. »
Lo trattenni facendo finta di calmarmi, ma d'un tratto credendo di coglierlo di sorpresa, allungai il braccio verso il suo basso ventre e la mia mano si sarebbe rapidamente resa conto in quel modo della cosa, se Bellino non avesse parato il colpo alzandosi ed opponendo alla mia mano, che non voleva abbandonare la presa, la sua, con cui copriva ciò che chiamava la sua vergogna. In quel momento mi parve o, per lo meno, credetti, suo malgrado, di vederlo tale. Stupito, irritato, mortificato e disgustato, lo lasciai andare. Mi era parso un uomo, e per di più un uomo disprezzabile, sia per la sua mutilazione che per la vergognosa tranquillità che mi parve di leggergli in viso nel momento in cui non avrei voluto avere le prove della sua insensibilità. Di lì a un momento, arrivarono le sue sorelle, ma le pregai di andarsene, perché avevo bisogno di dormire. Dissi loro di avvertire Bellino che l'avrei portato con me e che la mia curiosità era finita. Chiusi la porta e mi coricai, piuttosto malcontento però, perché, nonostante che quello che avevo visto dovesse avermi disingannato, non ero convinto. Ma che cosa volevo ancora? Ahimè, ci pensavo e non venivo a capo di nulla.
Al mattino, dopo colazione, partii con Bellino, col cuore straziato dai pianti delle sorelline e della madre che con in mano il rosario borbottava dei paternostri e non faceva che ripetere: «Dio provvederà».
La fede nella Provvidenza Eterna di quasi tutti coloro che vivono di mestieri proibiti dalle leggi o dalla religione non è né assurda né falsa e neppure frutto di ipocrisia: è una fede vera, reale e, così com'è, pia perché nasce da un'ottima fonte. Sia pure per vie imperscrutabili, è sempre la Provvidenza che opera sulla terra, e coloro che la adorano, al di là di qualsiasi considerazione, non possono che essere brava gente, anche se infrangono le leggi umane e divine.
“Pulchra Laverna
Da mihi fallere; de justo sanctoque videri;
Noctem peccatis, et fraudibus obice nubem!“
Così parlavano in latino alla loro dea i ladri romani al tempo di Orazio, che, mi disse una volta un gesuita, non avrebbe saputo la sua lingua, se avesse veramente scritto justo sanctoque. Gli ignoranti non mancano nemmeno tra i Gesuiti, perché i ladri si beffano della grammatica.
Eccomi dunque in viaggio con Bellino che, credendo d'avermi disingannato, poteva pensare che non avrei più avuto nessuna curiosità nei suoi confronti. Ma non passò un quarto d'ora che dovette accorgersi che si sbagliava. Infatti, non potevo guardarlo negli occhi senza sentirmi bruciare d'amore.
Gli dissi che i suoi erano occhi da donna e non da uomo, e che a quel punto avevo assolutamente bisogno di convincermi nell'unico modo possibile, cioè toccando con le mie mani, che quello che avevo visto quando la sera prima era scappato non era un mostruoso clitoride.
« Se così fosse » continuai « non mi sarebbe difficile perdonarti questa anomalia che, d'altronde, è soltanto ridicola. Ma se non è un clitoride, bisogna che me ne persuada, e la cosa è facilissima. Non mi interessa più vedere: tutto ciò che chiedo è toccare, e sta' tranquillo che non appena me ne convincerò diventerò dolce come un colombo. Una volta appurato che sei uomo, mi sarà impossibile continuare ad amarti. Sarebbe un amore perverso per il quale, grazie a Dio, non provo alcuna inclinazione. Il tuo faccino e, soprattutto, il seno che hai offerto alla mia vista e alle mie mani pretendendo di convincermi in quel modo che mi sbagliavo, hanno fatto nascere dentro di me una impressione invincibile che mi induce a seguitare a crederti ragazza. La tua figura, le tue gambe, le tue ginocchia, le tue cosce, le tue anche e le tue natiche sono la copia perfetta della Anadiomene che ho vista tante volte. Se, nonostante tutto ciò, sei soltanto un castrato, devo credere che, ben sapendo di assomigliare in tutto e per tutto a una ragazza, hai concepito il crudele proposito di farmi innamorare per farmi impazzire, rifiutandomi la sola prova che potrebbe mettermi il cuore in pace. Come un buon medico, hai imparato alla più maledetta delle scuole che l’unico modo per impedire a un giovane di guarire da una passione amorosa è di eccitarlo di continuo; ma, mio caro Bellino, ammetterai che non saresti capace di esercitare questa tirannia se non odiassi la persona sulla quale essa deve avere un tale effetto. Stando così le cose, dovrei fare appello a quel po' di ragione che mi rimane per odiarti, ragazza o ragazzo che tu sia; e devi anche capire che rifiutandomi ostinatamente il chiarimento che ti domando, mi costringi a disprezzarti come castrato. L'importanza che attribuisci alla cosa è puerile e anche malvagia. Se hai un po' di cuore non puoi ostinarti in questo rifiuto che mi mette nella crudele necessità di avere dei dubbi. Devi renderti conto che, in queste condizioni, alla fin fine potrei ridurmi a ricorrere alla forza. Se mi sei nemico, devo trattarti come tale, senza alcun riguardo. »
Finito che ebbi questo duro discorso, che ascoltò senza interrompermi, Bellino per tutta risposta mi disse:
«Si ricordi che lei non è il mio padrone, che sono nelle sue mani sotto pegno di una promessa che lei mi ha fatto attraverso Cecilia e che si renderebbe colpevole di un delitto, se mi usasse violenza. Dica al vetturino di fermarsi: scenderò, e non andrò a lamentarmi con nessuno. »
E dopo queste poche ma ferme parole, scoppiò a piangere gettandomi in un vero stato di desolazione. Pensai quasi di aver avuto torto: dico quasi, perché se ne fossi stato sicuro gli avrei chiesto perdono, ma, poichè non volevo erigermi a giudice della mia causa, mi chiusi in un cupo silenzio ed ebbi la costanza di non pronunciar più una parola fino a metà strada da Senigallia, dove intendevo cenare e dormire. Sentivo, infatti, che prima di arrivare a destinazione, dovevamo venire ad una risoluzione e pensavo di poterlo ancora ridurre alla ragione.
« Avremmo potuto separarci a Rimini da buoni amici » gli dissi « e così sarebbe stato, se tu mi avessi dimostrato un po' di amicizia. Se fossi stato appena un po' più compiacente, avresti potuto guarirmi dalla mia passione. »
« No, non ne sarebbe guarito» mi rispose Bellino, con fermezza, ma con un tono la cui dolcezza mi stupì, « perché lei è innamorato di me, donna o maschio che io sia, e anche se mi avesse trovato maschio avrebbe continuato ad essere innamorato di me e i miei rifiuti non avrebbero fatto altro che accrescere la sua furia: anzi, di fronte alle mie resistenze, si sarebbe abbandonato a eccessi che le avrebbero poi fatto spargere inutili lacrime. »
« E così credi di darmi ad intendere che la tua ostinazione è ragionevole. Ma ti dico che ti sbagli. Dammi la prova che non sei una ragazza, e troverai in me soltanto un casto e buon amico. »
« Diventerebbe furioso, le dico. »
« Ciò che mi ha reso furioso è stata l'esibizione delle tue grazie di cui, ammettilo, non potevi certo ignorare l'effetto. Ma se allora non hai temuto il mio furore amoroso, come puoi farmi credere di temerlo adesso che ti domando soltanto di farmi toccare una cosa che non può che disgustarmi? »
« Oh! Disgustarla! Sono sicuro del contrario. Mi stia a sentire. Se fossi una ragazza non potrei non amarla, lo so. Ma visto che sono un ragazzo, ho il dovere di non assecondare affatto il suo desiderio, perché la sua passione, che ora è soltanto naturale, diventerebbe immediatamente mostruosa. La sua natura ardente entrerebbe in conflitto con la sua ragione, e questa si lascerebbe facilmente andare diventando complice del suo istinto. In breve, in virtù di questa miscela esplosiva che non sembra temere e che, anzi, vorrebbe che l'aiutassi a preparare, lei non saprebbe più controllarsi. I suoi occhi e le sue mani, cercando ciò che non potrebbero trovare, penserebbero di vendicarsi su quello che troverebbero, e tra lei e me accadrebbe ciò che di più abominevole può accadere tra due uomini. Come può illudersi, intelligente come è, di poter smettere di amarmi, scoprendo che sono un uomo? Crede forse che quelle che lei chiama le mie grazie e di cui dice d'essere innamorato, scomparirebbero? Diventerebbero, invece, più forti e allora la sua passione, diventata brutale, ricorrerebbe a tutti i mezzi che la sua fantasia eccitata escogiterebbe per soddisfarsi. Arriverebbe a convincersi di potermi trasformare in donna o, immaginando di potercisi trasformare lei, pretenderebbe che la considerassi tale. La sua ragione, sedotta dalla passione, inventerebbe un'infinità di sofismi, sosterrebbe che il suo amore per me maschio è più ragionevole di quel che sarebbe se fossi femmina, perché ne rintraccerebbe la radice nella più pura amicizia e non mancherebbe di allegarmi esempi famosi di simili stranezze. Poi, ammaliato lei stesso dalla speciosità delle sue argomentazioni, diventerebbe un torrente che nessuna diga potrebbe fermare, e mentre a me mancherebbero le parole per distruggere le sue false ragioni e le forze per respingere il suo furore, arriverebbe a minacciarmi di morte se le impedissi di penetrare in un tempio inviolabile la cui porta la saggia natura creò per aprirsi soltanto a ciò che esce. Sarebbe, questa, una profanazione orribile che potrebbe essere compiuta solo col mio consenso, ma preferirei morire che darglielo. »
« Non accadrebbe nulla del genere » gli risposi un po' oppresso dal rigore della sua argomentazione. « Tu esageri. Debbo comunque dirti, a sgravio di coscienza, che, se anche accadesse quanto dici, mi sembra che sarebbe più facile perdonare alla natura uno smarrimento siffatto, che la filosofia non può che considerare un gioco folle e privo di conseguenze, che agire in modo da rendere inguaribile una malattia dello spirito che la ragione trasformerebbe in passeggera.».
Così ragiona il povero filosofo quando il tumulto di una passione scombussola le sue facoltà mentali!
Per ragionar bene, infatti, bisogna non essere innamorati né irritati, perché queste due passioni ci rendono simili alle bestie, ma sventuratamente non siamo mai così portati a ragionare come quando siamo in preda a una di esse.
Arrivammo a Senigallia, dopo un viaggio abbastanza tranquillo, a notte inoltrata, e scendemmo all'albergo della posta. Scelsi una buona camera, vi feci portare i bagagli e ordinai la cena. Nella stanza, però, c'era un solo letto e perciò chiesi con molta calma a Bellino se voleva farsi accendere il fuoco in un'altra camera. Immagini il lettore la mia sorpresa quando lo sentii rispondere con dolcezza che non aveva nessuna difficoltà a coricarsi nel mio stesso letto. Veramente, questa risposta, che non mi sarei mai potuto aspettare, era proprio ciò che mi occorreva per liberarmi dal malumore che mi turbava. Capii che stavo per arrivare alla fine dello spettacolo, ma non osavo rallegrarmene perché non riuscivo a prevedere se sarebbe stata piacevole o tragica. Di una cosa pero ero certo, e cioè che una volta a letto Bellino non mi sarebbe sfuggito, anche se avesse avuto la sfrontatezza di non spogliarsi. Contento di aver vinto, ero deciso ad ottenere una seconda vittoria su me stesso, rispettandolo se lo avessi trovato maschio, cosa che però non credevo possibile, mentre invece, se l'avessi trovato femmina ero certo di ottenere da lui tutte le compiacenze che mi doveva, non fosse altro che per rendermi giustizia.
Ci mettemmo a tavola e nei suoi discorsi, nel suo atteggiamento, nell'espressione del suo sguardo, nei suoi sorrisi, Bellino mi parve un altro.
Liberato come mi sentivo da un gran peso, cercai rendere la cena il più breve possibile. Quando ci alzammo da tavola, Bellino fece portare un lume da notte in camera e, dopo aver chiuso l'uscio, si spogliò e si coricò. Io lo imitai senza pronunciar parola e mi infilai nel letto accanto a lui.

 
 


Bellino, alias Teresa Lanzi cantante e compositrice

 

 

Volume I - ( parte del )Capitolo XII

 

Bellino smascherato.
La sua storia.
Mi arrestano.

 

Appena fummo ambedue a letto, trasalii vedendo Bellino venirmi vicino. Subito me lo strinsi al petto e lo sentii animato dalla mia stessa passione. Il nostro duetto cominciò con un diluvio di baci. Poi le sue mani scesero a cercarmi giù lungo la schiena fino alle reni e allora io spinsi le mie ancor più in basso e nel medesimo istante trovai la soluzione dell'enigma e la chiave della mia felicità. Mi sentivo felice: ero felice e temevo di cessare di esserlo se avessi parlato o di esserlo come non avrei voluto, e così mi abbandonai corpo e anima alla gioia che inondava la mia vita che vedevo condivisa. Ma la mia felicità era tale impadronendosi di tutti i miei sensi, toccò il punto in cui la natura, affogando nel supremo piacere si estenua. Rimasi per un minuto immobile per assaporare il mio trionfo.
La vista e il tatto, che avevo creduto dovessero rappresentare, in quel dramma, i principali personaggi, ebbero in realtà solo ruoli secondari. I miei occhi non desideravano felicità maggiore di quella di fissarsi sul volto della persona che li affascinava e il mio tatto, confinato alla punta delle dita, solo di dover mutar posto, perché non riusciva a immaginare di trovare niente di più piacevole. Avrei accusato la natura di estrema viltà se senza il mio consenso avesse osato abbandonare il posto di cui mi sentivo possessore.
Dopo qualche minuto di pausa, che trascorremmo nel più eloquente silenzio, ricominciammo da capo. Il piacere che ci procuravamo l'un l'altra era qualcosa di ineffabile: Bellino me lo dimostrava di tanto in
tanto con dolcissimi gemiti e io godevo al punto che non volevo mai arrivare al culmine del piacere. Durante tutta la vita, in effetti, non sono mai riuscito a liberarmi dalla paura che il mio destriero recalcitrasse a ricominciare e ho sempre preferito trattenermi il più possibile, anche perché il piacere della donna ha sempre rappresentato per me i quattro quinti del mio. Questa, del resto, è la vera ragione per cui siamo naturalmente portati a detestare la vecchiaia, che può procurarsi piacere ma non darne, anche se, nonostante la fuggiamo per tutta la vita come un terribile e mostruoso nemico, alla fine è sempre lei, ad avere la meglio.
Sostammo, alfine. Una pausa ci era necessaria. Veramente non eravamo stanchi, ma i nostri sensi avevamo proprio bisogno della tranquillità dei nostri spiriti per potersi riprendere.
Bellino fu il primo a rompere il silenzio. Mi chiese trovata abbastanza innamorata.
“Innamorata? Ammetti dunque d'essere una donna? Dimmi, tigre, se è vero che mi amavi, come hai potuto rinviare così a lungo la tua e la mia felicità? Ma è proprio vero che sei di quel sesso incantatore cui sembri?”
“Adesso che sono tutta tua, puoi accertattene da te”
“Ho bisogno di assicurarmene. Gran Dio! Ma dove è andato a finire il mostruoso clitoride che ho visto ieri?”
E dopo un esame pienamente convincente, la cui conseguenza fu una nuova manifestazione di riconoscenza che durò a lungo, quella incantevole creatura mi raccontò la sua storia.
“Il mio vero nome è Teresa” mi disse. “In casa di mio padre, povero impiegato dell'Istituto di Bologna, alloggiava il famoso cantante castrato Salimbeni. Avevo dodici anni e una bella voce. Salimbeni era un bell'uomo. Fui lusingata di piacergli e di sentirmi lodare da lui, e quando mi propose di studiare con lui la musica e il clavicembalo fui felicissima. In capo a un anno ero già in grado di cantare, accompagnandomi al clavicembalo, come cantava lui, che era quel gran musico che era, tanto grande che l'elettore di Sassonia e Re di Polonia l'aveva chiamato alla sua corte. La sua ricompensa fu quella che il suo amore lo indusse a chiedermi, e io gliel'accordai, senza sentirmi umiliata, perchè lo adoravo. Indubbiamente, gli uomini come te sono preferibili a quelli che assomigliano al mio primo amante, ma Salimbeni era un essere eccezionale. La sua bellezza, la sua intelligenza, i suoi modi, il suo talento e le eccelse qualità del suo cuore e del suo animo me lo rendevano preferibile a tutti gli uomini che avevo conosciuto fino a quel momento. Era anche modesto e discreto, ricco e generoso, e credo che nessuna donna mai abbia potuto resistergli, anche se non l'ho mai sentito vantarsi di una conquista. La mutilazione aveva fatto di lui un mostro, ma un mostro dalle qualità adorabili. Dal giorno in cui mi diedi a lui, ha fatto la mia felicità, prodigandosi sempre tanto per me, ma credo d'avere anch'io la sua.
“Salimbeni manteneva, a Rimini, in casa di un maestro di musica, un ragazzo della mia età che il padre, in punto di morte, aveva fatto castrare per preservargli bella la voce e permettergli di servirsene in teatro per mantenere la numerosa famiglia che lasciava sulla terra. Il ragazzo si chiamava Bellino ed era il figlio della brava donna che hai conosciuto ad Ancona e che tutti credono mia madre. Ero ormai da un anno l'amante di Salimbeni, quando un giorno egli mi disse piangendo che mi doveva lasciare per recarsi a Roma, ma che sarebbe ritornato presto. Partendo, mi spiegò, avrebbe lasciato a mio padre il denaro necessario per continuare a farmi studiare; ma proprio in quei giorni una febbre maligna si portò via mio padre ed io rimasi orfana. Ero disperata. Salimbeni non ebbe la forza di resistere alle mie lacrime e decise di condurmi con sé a Rimini e di mettermi a pensione in casa dello stesso maestro di musica dove teneva il giovane Bellino, il fratello di Cecilla e di Marina. Lasciammo Bologna di notte, senza che nessuno lo sapesse, anche perché nessuno mi conosceva e s'interessava a me tranne il buon Salimbeni. Quando arrivammo a Rimini, mi lasciò in albergo e si recò dal maestro di musica per prendere i necessari accordi, ma di lì a una mezz 'ora era già di ritorno, e pensieroso: Bellino era morto il giorno prima.
Pensando al dolore che la madre avrebbe provato alla notizia della scomparsa del ragazzo, pensò di ricondurmi a Bologna sotto il nome di Bellino e di mettermi a pensione in casa di sua madre che, povera com’era, avrebbe avuto tutto l'interesse a serbare il segreto. “Le darò” mi spiegò “i mezzi per farti studiare e perfezionare, e tra quattro anni ti farò venire a Dresda, non come una ragazza ma come castrato. Vivremo insieme senza che nessuno abbia nulla da ridire e tu mi farai felice per tutta la vita. Si tratta di fare in modo che a Bologna tutti ti credano, Bellino ma questo non sarà difficile, visto che nessuno ti conosce. Solo la madre di Bellino sarà al corrente di tutta la faccenda, perché gli altri suoi figli erano ancora molto piccoli quando portai via Bellino e non sospetteranno di nulla. Se dunque mi ami davvero devi rinunciare al tuo sesso e perderne persino il ricordo, devi assumere il nome di Bellino e partire subito con me per Bologna, vestita da ragazzo.
D'ora innanzi dovrai stare bene attenta e fare in modo che nessuno scopra che sei una ragazza. Dormirai sola, farai attenzione nel vestirti e, quanto al seno, quando tra un paio d'anni ti si svilupperà, non preoccuparti, perché è un difetto comune a tutti noi. Inoltre, prima di lasciarti, ti darò un piccolo aggeggio e ti insegnerò ad applicartelo là dove si vede la differenza di sesso, in modo che, nel caso ti dovessi sottoporre a una visita, tu possa trarre in inganno la gente. Se il mio piano ti va, sono certo che potremo vivere insieme a Dresda senza che la regina, che è molto religiosa, vi possa trovare a ridire. Non poteva dubitare del mio consenso, perché non c'era per me piacere più grande che fare tutto ciò che voleva. Gettai via tutti i miei indumenti femminili e mi vestii da ragazzo. Quindi, dopo che Salimbeni ebbe dato ordine al suo servitore di attenderlo a Rimini, partimmo per Bologna, dove arrivammo sul far della notte. Mi sistemò in albergo e poi corse subito dalla madre di Bellino. La informò del suo piano e non appena la poveretta accettò, consolandosi, per così dire, in quel modo, della morte del figliolo, me la portò in albergo. La signora mi chiamò figliolo ed io chiamai lei mamma. Salimbeni se ne andò dicendoci di aspettarlo e tornò di lì a un'ora con in tasca l'arnese che in caso di necessità avrebbe dovuto farmi scambiare per uomo. L'hai visto. E’ una specie di budello, lungo, molle, grosso come un pollice, bianchiccio e molto morbido. Stamattina, quando l'hai chiamato clitoride, non ce la facevo più a trattenermi per non scoppiare a riderti in faccia. L'aggeggio è attaccato a una pelle sottile e trasparente, di forma ovale, lunga da cinque a sei pollici e larga due, che, applicata con della colla sul pube nasconde l'organo femminile. In quell'occasione Salimbeni sciolse la colla e mi montò il tutto in presenza della mia nuova madre e così conciata divenni come il mio caro amico. In verità la cosa mi faceva ridere e certo mi sarei messa a ridere se l'imminente partenza dell'uomo che adoravo non mi avesse spezzato il cuore. Di fatto, partito che fu, rimasi come morta, con addosso il presentimento di non rivederlo più. La gente si fa beffe dei presentimenti, e a ragione, perché il cuore non parla a tutti, ma il mio cuore non mi ingannava: Salimbeni è morto giovanissimo un anno fa nel Tirolo, da vero filosofo. Ormai, per campare, ero ridotta a trar partito dal mio talento. Mia madre pensò che sarebbe stato meglio continuare a spacciarmi per maschio, perché sperava di riuscire a portarmi a cantare a Roma e, nel frattempo, per tirare avanti, accettò la scrittura per il teatro di Ancona, dove fece danzare Petronio come ragazza.
Dopo Salimbeni, tu sei il solo uomo tra le cui braccia abbia veramente conosciuto l'amore e dipende solo da te che lasci per sempre il nome di Bellino che, dopo la morte di Salimbeni, mi riesce detestabile e che comincia anche a mettermi in situazioni piuttosto imbarazzanti. Ho cantato soltanto in due teatri e in tutti e due, se ho voluto essere ammessa, ho dovuto subire esami e controlli vergognosi. Infatti tutti mi trovano così simile a una ragazza che per credermi uomo hanno bisogno di averne le prove. E questo sarebbe ancora il meno, anche perché fino ad ora ho avuto a che fare soltanto con vecchi sacerdoti che si accontentavano di quel che vedevano per fare il loro rapporto al vescovo, ma purtroppo devo anche continuamente difendermi da due categorie di persone che mi ronzano intorno per ottenere da me favori illeciti ed orribili. Da una parte ci sono quelli che, come te, innamorano di me e non potendo credere che sia maschio pretendono che dia loro le prove della verità: e in questo caso non posso certo accontentarli, perché c'è il pericolo che vogliano convincersene con il tatto, con il rischio non solo che mi smascherino, ma, soprattutto, che, incuriositi, vogliano servirsi del mio arnese per soddisfare delle voglie mostruose. Dall'altra parte ci sono invece quei turpi individui che mi dichiarano il loro brutale amore, ritenendomi, come voglio apparir loro, un castrato e sono quelli che più mi perseguitano, tanto che, amico mio, ho paura che un giorno o l'altro, ne pugnalerò qualcuno. Ahimè, angelo mio, toglimi da questa vergogna, prendimi con te! Non domando di sposarti: voglio essere soltanto la tua fedele amica, come sarei stata per Salimbeni. Il mio cuore è puro e mi sento di amarti per sempre. Non mi abbandonare. L'amore che mi hai ispirato è vero amore; quello che provavo per Salimbeni era qualcosa di innocente e io stessa mi rendo conto di essere diventata veramente donna solo dopo essere stata tra le tue braccia.”
Profondamente commosso, le asciugai le lacrime e le promisi con tutto il cuore che saremmo stati insieme. Ma, per quanto la straordinaria storia che mi aveva raccontata mi sembrasse fondamentalmente vera e attendibile, non potevo convincermi di averle ispirato un vero affetto fin dal nostro soggiorno ad Ancona.
“Se mi amavi” le chiesi “come hai potuto farmi soffrire tanto e lasciare che andassi con le tue sorelle?”
“Ahimè, amico mio! Pensa alla nostra grande povertà e al mio pudore a svelare il mio essere. Ti amavo, ma potevo esser certa che l'interesse che mi mostravi non era solo un capriccio? Vedendoti passare con tanta leggerezza dalle braccia di Cecilia a quelle di Marina, ho temuto che avresti fatto così anche con me, non appena avessi soddisfatto i tuoi desideri. E poi, sulla nave turca, vedendoti fare quello che hai fatto con quella schiava, senza che la mia presenza ti imbarazzasse, non ho più avuto dubbi sulla tua volubilità e, anche, sulla scarsa importanza che attribuisci a certe cose. Infatti, se soltanto mi avessi amato un poco, ti saresti sentito imbarazzato, e così ho pensato che non ti importasse niente di me e che anzi mi disprezzassi, e Dio solo sa quanto ho sofferto. M'hai insultata, amico mio, in cento modi diversi, ma io, dentro di me, cercavo di giustificarti. Ti vedevo irritato e desideroso di vendicarti. Ancora oggi, in carrozza, non mi hai minacciata? Confesso che mi hai fatto paura, ma non credere che mi sia indotta ad accondiscendere ai tuoi desideri per paura. No, amico mio, avevo deciso di darmi a te, non appena mi avessi portata via da Ancona, fin dal momento in cui ho detto a Cecilia di venirti a chiedere se volevi condurmi a Rimini.”
“Liberati dall'impegno che hai a Rimini e proseguiamo il viaggio. Ci fermeremo qualche giorno a Bologna e poi verrai con me a Venezia, Vestita da donna e con un altro nome, sfido l'impresario dell'opera di Rimini a ritrovarti.”
“Accetto. La tua volontà sarà sempre la mia. Salimbeni è morto: io sono padrona di me e mi rimetto a te. Il mio cuore ti appartiene per sempre e spero di sapermi conservare il tuo”.
“Lascia che ti veda ancora, ti prego, con quello strano aggeggio che ti diede Salimbeni”.
“Subito”
Scese dal letto, versò dell'acqua in una ciotola, aprì un baule, ne tolse lo strumento e la colla, fece fondere la colla e si adattò il camuffamento. Il risultato era qualcosa di incredibile. Già incantevole di per sé, con quello straordinario aggeggio Teresa diventava ancora più attraente, perché quel candido pendaglio, in realtà, non nascondeva un bel niente. Vedendola così, non potei fare a meno di dirle che aveva fatto bene a non lasciarsi toccare da me, perché altrimenti avrei perso e chissà cosa avrei fatto, se non avesse provveduto subito a disingannarmi. Lei non mi credette e volevo a tutti i costi convincerla che dicevo la verità, ne uscì una discussione comicissima. Alla fine ci addormentammo e ci risvegliammo solo molto tardi.
Colpito da ciò che mi aveva detto e affascinato dalla sua bellezza, dal suo talento, dall'innocenza del suo animo, dai suoi sentimenti e dalle sue sventure, delle quali la più crudele era certo stata quella di doversi fingere qualcosa di diverso da quello che era, esponendosi così all'umiliazione e alla vergogna, ero ben deciso ad unirla al mio destino o ad unire me al suo, perché la nostra situazione era press'a poco la stessa. Riflettendo su questo fatto, mi resi anche conto che, visto che ero deciso a stare per sempre con lei, dovevo sigillare la nostra unione con il matrimonio. Secondo le idee che avevo allora, infatti, il sacro vincolo del matrimonio non avrebbe che aumentato il nostro amore, rafforzato la nostra stima reciproca e conquistato quella della società che pensavo, non avrebbe mai riconosciuto la legittimità del nostro legame se non fosse stato sancito dalla legge. Il talento di Teresa, tra l'altro, mi garantiva che non ci sarebbe mai mancato il necessario per vivere, e, d'altra parte, non disperavo neppure del mio talento, anche se non sapevo come avrei potuto trarne partito. L'idea di dover vivere a spese di Teresa, però, mi diede da pensare. Forse, senza dire che avrei potuto sentirmi umiliato, Teresa avrebbe potuto inorgoglirsene e, alla fine, anche mutare la natura dei suoi sentimenti perché, invece di trovare in me il suo protettore, si sarebbe riconosciuta mia benefattrice. Certo il nostro amore ne sarebbe rimasto incrinato, ma non potei fare a meno di pensare che se l'animo di Teresa fosse stato capace di tale bassezza, lei si sarebbe resa degna di tutto il mio disprezzo. Così, capii che, prima di assumermi qualsiasi responsabilità, dovevo sapere come stavano le cose: dovevo sondare Teresa e sottoporla ad una prova che mi permettesse di conoscere a fondo il suo animo. Decisi perciò di tenerle un bel discorso.
“Mia cara Teresa” le dissi “ciò che mi hai raccontato mi dà la certezza che mi ami e il fatto che tu sia tanto sicura di essere diventata padrona del mio cuore mi fa sentire così innamorato che sono pronto a far qualsiasi cosa per convincerti che non ti sei ingannata. Devo, anzitutto, dimostrarti di essere degno della tua fiducia, ricambiandoti con la stessa sincerità di cui mi hai dato prova. I nostri cuori devono porsi l'uno di fronte all'altro in condizione di perfetta parità. Adesso io conosco te, ma tu non conosci me. Tu mi dici che non te ne importa, e questo abbandono mi dimostra quanto grande sia il tuo amore, ma mi pone anche al di sotto di te, proprio nell'atto in cui pensi di renderti ancor più adorabile ponendomi al di sopra di te. Tu non vuoi saper nulla, non chiedi che di appartenermi e non aspiri che a possedere il mio cuore. E’ bello, Teresa, ma per me è umiliante. Tu mi hai confidato i tuoi segreti e io debbo confidarti i miei, ma prima promettimi che quando avrai ascoltato ciò che ho da dirti mi dirai sinceramente che cosa è cambiato nel tuo cuore.”
“Te lo prometto: non ti nasconderò nulla. Ma tu cerca di essere leale, e non confidarmi cose false. T'avverto che non ti serviranno a nulla, se cerchi di servirtene come un mezzo per scoprirmi meno degna del tuo amore, ma mi ti faranno stimare meno, perché scoprirei che sei capace di imbrogliarmi. Fidati di me, come io mi fido di te. Dimmi la verità senza veli.”
“Eccola. Per prima cosa, tu mi credi ricco, ma io non lo sono. Quando avrò dato fondo alla mia borsa non possederò più nulla. Forse mi credi anche di nobile stirpe, e invece sono di condizione eguale se non inferiore alla tua. Non ho alcun talento per guadagnar denaro, alcun impiego e alcun motivo per sperare che tra qualche mese potrò avere di che mangiare. Non ho né parenti nè amici, nè diritti da rivendicare, progetti o prospettive. Tutto ciò che posseggo è la giovinezza, la salute, il coraggio, un po' di intelligenza, sani e onesti principi e alcune buone nozioni di letteratura. La mia grande ricchezza è che sono padrone di me stesso, che non dipendo da nessuno e che non ho paura delle sventure, Tendo anche ad essere uno spendaccione. Ecco il tuo uomo. Rispondimi, mia bella Teresa.”
“Sappi anzitutto che sono convinta che ciò che mi hai detto è la pura verità e che nel tuo racconto nulla mi ha stupito, tranne il nobile coraggio che ti ha indotto a parlarmi. Quanto al resto, fin da quando eravamo ad Ancona, mi è capitato di giudicarti proprio come ti sei descritto e, anziché esserne preoccupata, mi sono augurata di non sbagliarmi, perché se davvero eri come ti immaginavo, potevo sperare di conquistarti. Ma, insomma, quanto al fatto che sei povero e, pur non possedendo nulla, sei anche uno scialacquatore, lascia che ti dica che ne sono contentissima perché, dal momento che mi ami, non potrai disprezzare il dono che ti farò. Questo dono sono io stessa: mi dò a te così come sono, sono tua e avrò cura di te. Tu pensa solo ad amarmi, ma ama me sola. Da questo momento non sono più Bellino. Andiamo a Venezia, e vedrai che saprò guadagnare di che vivere. E se non vuoi andare a Venezia, andiamo dove ti pare.”
“Devo andare a Costantinopoli.”
“Andiamoci, Se hai paura di perdermi perché mi credi incostante, sposami, e così sarò tua anche per la legge. Non dico che se sarai mio marito ti amerò di più, ma mi piacerebbe essere la tua sposa e poi potremmo riderne.”
“Benissimo. Dopodomani, al più tardi, ti sposerò, a Bologna, perché voglio legarti a me in tutti i modi possibili.”
“Sono felice. Visto che a Rimini non abbiamo nulla da fare, domani mattina ce ne andremo. Ma adesso è inutile che ci alziamo. Mangiamo a letto e poi facciamo l'amore.”
“Ottima idea.”
Passammo così un'altra notte nel piacere e nella gioia e all'alba partimmo. Dopo 4 ore di viaggio ci fermammo a Pesato per far colazione. Mentre stavamo per rimontate in carrozza, arrivò un sottufficiale con due fucilieri a chiederci il nome e il passaporto. Bellino gli diede il suo, ma io cercai invano il mio. Trovai le lettere del cardinale e del cavaliere Da Lezze, insieme alle quali lo avevo riposto, ma, per quanto mi frugassi addosso, non riuscii a trovarlo. Il caporale ordinò al postiglione di aspettare e se ne andò a prendere ordini. Di lì a mezz'ora tornò con il passaporto di Bellino dicendogli che poteva partire, e a me, invece, in giunse di recarmi dal comandante.
Appena gli fui innanzi, costui mi chiese come mai non avevo il passaporto.
“L'ho perduto.”
“Non si perde un passaporto!”
“Sì che si perde, tanto è vero che io l'ho perduto.”
“Lei non può proseguire.”
“Vengo da Roma e vado a Costantinopoli per portare una lettera del cardinale Acquaviva. Ecco qui la lettera con il sigillo del cardinale.”
“Io posso solo farla accompagnare dal signor de Gages”.
Trovai il famoso generale in piedi, circondato da il suo stato maggiore. Gli ripetei ciò che avevo già detto al comandante e lo pregai di lasciarmi proseguire il viaggio.
“Tutto quello che posso fare è di trattenerla finché le arriverà da Roma un nuovo passaporto con il nome che lei ha dichiarato. La disgrazia di perdere un passaporto può capitare solamente ad uno sventato e il cardinale imparerà così a non affidare incarichi a degli sventati.“
Detto questo, diede ordine di farmi scrivere a Roma per chiedere un nuovo passaporto e poi di tenermi agli arresti nel posto di guardia fuori città, che si chiamava Santa Maria.
Alla stazione di posta, dove fui subito condotto, scrissi al cardinale l'incidente che mi era capitato e lo pregai di spedirmi, senza perder tempo, un passaporto direttamente al ministero della Guerra. Quindi, mentre la lettera partiva con una staffetta, corsi ad abbracciare Bellino-Teresa che era desolata per il contrattempo, le dissi di andarmi ad aspettare a Rimini e la costrinsi ad accettare cento zecchini. Lei avrebbe voluto rimanere a Pesaro, ma non acconsentii. Così, dopo aver fatto scaricare il mio baule ed averla vista partire, mi lasciai accompagnare al posto di guardia.
In momenti del genere anche il più ottimista degli uomini entra in crisi, ma con un po' di stoicismo riesce sempre a rimanere a galla. Ciò che più mi fece soffrire, in verità, fu l'angoscia di Teresa che, vedendomi strappare dalle sue braccia proprio quando dovevamo cominciare a stare insieme, faticava a trattenere le lacrime. E certo, se non l'avessi convinta che ci saremmo rivisti entro una decina di giorni a Rimini, non si sarebbe mai risolta a partire, ma, del resto, anche lei si era resa perfettamente conto che non sarebbe stato opportuno per lei rimanere a Pesaro.
A Santa Maria, l'ufficiale mi portò nel corpo di guardia, dove, per sedermi, dovetti usare il mio baule. L'ufficiale era un maledetto catalano che non si degnò nemmeno di rispondermi quando gli dissi che, avendo del denaro, desideravo un letto e un domestico che mi procurasse ciò di cui avevo bisogno. Dovetti passare la notte su un mucchio di paglia, senza aver mangiato nulla, in mezzo ai soldati catalani.
Era la seconda volta che passavo una notte così, dopo averne passate un paio deliziose. Il mio Genio, evidentemente, si divertiva a trattarmi in quel modo per procurarmi il piacere di far dei paragoni. E questa è una dura scuola, ma di sicuro effetto, soprattutto per gli individui che hanno un po' dello stoccafisso.
Quando volete chiudere la bocca a qualche filosofo da strapazzo, che osi dirvi che nell'esistenza dell'uomo la somma dei dolori supera quella dei piaceri, chiedetegli se vorrebbe una vita senza dolori e senza piaceri. Non vi risponderà o vi darà una risposta tortuosa, perché, se risponde di no, vuol dire che ama la vita, e, se l'ama, vuol dire che la trova piacevole, e piacevole non potrebbe essere se fosse dolorosa; se invece ti risponde di sì, ammette di essere uno sciocco, perché identifica il piacere con l'indifferenza. Quando soffriamo, non soffriamo mai senza nutrire piacevole speranza che la nostra sofferenza abbia fine, e in questo non ci sbagliamo mai perché, per male che vada, finiamo con l'addormentarci e durante il sonno sogni lieti ci consolano e ci calmano. Quando invece godiamo, il pensiero della sofferenza che inevitabilmente verrà dopo la gioia non ci turba mai. Il piacere, dunque, quando c’è, è sempre puro; il dolore, invece, è sempre temperato.
Tu hai vent'anni. Viene il Padreterno e ti dice:
“Ti concedo ancora trent'anni di vita, quindici tutti dolori e quindici tutti piacevoli. Scegli. Vuoi cominciare con i quindici tristi o con quelli piacevoli?”
Confessa, caro lettore, che, chiunque tu sia, risponderesti:
“Dio mio, voglio cominciare con i quindici anni di dolore. L'attesa dei quindici anni piacevoli che mi restano mi darà la forza di sopportare le mie pene.”
E a questo punto, caro lettore, puoi trarre le conclusioni anche da te. L'uomo saggio, credimi, non è mai completamente infelice: anzi, come dice Orazio, è sempre felice, “nisi quum pituita molesta est.” Ma l'uomo che ha sempre il raffreddore?…

 

 

 

 

Vita di Casanova

 

 

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A cura di  Arsace

 

www.haendel.it

 

Ultimo aggiornamento: 17-10-21