Metastasio 

 

 

Lettere

 
 

 

 

 

 

Lettere di Metastasio a Marianna Benti Bulgarelli


 

Vienna, 27 gennaio 1731

Ricevo questa mattina le lettere non solo della presente ma anche della scorsa settimana, e mi sollevo dalla malinconia che nella mancanza di quelle mi avea assalito, pel sospetto che qualche anima pia si fosse impiegata a scemarmi la pena di leggerle prevenendomi alla posta. Vi rendo grazie delle minute notizie che mi date di coteste opere e commedie, e godo che il nostro Ciullo si sia fatto onore. Spero che il posto in cui l'ha fatto impiegare Sua Santità non gli sarà infruttuoso. Avvisatemene, e frattanto salutatelo a mio nome. Oggi è appunto il primo giorno delle maschere, e io son qui a gelarmi. Pure mi trattengo piacevolmente, figurandomi voi impiegata e divertita. In questo momento, che secondo l'orologio di Roma saranno le 21 ore, comincerà la frequenza de' sonagli pel Corso. Ecco il signor canonico de Magistris, che apre l'antiporta. Ecco il signor abate Spinola. Ecco Stanesio. Ecco Cavanna. Ecco tutti i musici di Aliberti. Chi sarà mai quella maschera che guarda tanto le nostre fenestre? Fa un gran tirar di confetti, e non può star ferma.
- È certo l'abatino Bizzaccari.
- E quel bauttone così lungo che esamina tutte le carrozze, fosse mai il bellissimo Piscitelli?
- Certo senza dubbio.
- Ecco il conte Mazziotti, che va parlando latino.
- Ecco i cortegiani affettati vestiti di carta.
- Ma che baronata è mai questa! Quasi tutte le carrozze voltano a San Carlo.
- Che cosa è? -  Il segno.
- Presto. - Viene il bargello.
- Venga, signor agente di Genova.
- Non importa.
- Ma se v'è luogo per tutti?
- Vede ella?
- Vedo benissimo.
- Ma mi pare che stia incomodo.
- Mi perdoni, sto da re.
- Eccoli, eccoli.
- Quanti sono?
- Sette. Chi va innanzi?
- Il sauro di Gabrielli, ma Colonna lo passa
- Uh, Gesù Maria!
- Che è stato?
- Una creatura sotto un barbero.
- Sarà morta certo.
- Povera madre! Lo portano via?
- No, no. Era un cane.
- Manco male.
- Dica chi vuole, è un gran piacere la forte immaginativa.
Io ho veduto il Corso di Roma dalla piazza de' gesuiti di Vienna. Ora, per passare dal ridicolo al burlesco, io sto tormentato al solito dalla mia tossetta, e non mi resta oramai altra speranza che la buona stagione. Ho finito l'Oratorio, che in qualche maniera verrà a Roma subito stampato. Ho parlato all'ambasciatrice di Venezia per la toilette consaputa, ed è rimasta stupita, perché le avevano scritto d'averla consegnata: sentiremo che rispondono alle repliche della medesima. Dalle nevi e dal freddo che soffrite in Roma argomentate quelli di Vienna. Non passa settimana che non si senta qualche povero villano o passeggere sorpreso dal freddo e rimasto morto per le campagne. Qui per la città si cammina sopra tre palmi di ghiaccio cocciuto più delle pietre. La neve poi, che cade continuamente, si stritola e si riduce a tal sottigliezza che vola e si solleva come la polvere dell'agosto. Eppure vi sono delle bestie che vanno in slitta la notte. Io so che per reggermi in piedi ho dovuto far mettere le sole di feltro alle scarpe, perché in quel solo passo indispensabile che debbo fare per montare in carrozza ho dato solennemente il cul per terra, senza danno però della macchina. Insomma conoscendo la lubricità del paese mi son premunito. Voi mi domandate parere di un sonetto d'Ignazio de Bonis che io non ho veduto e non so di che tratti per conseguenza.
Al signor agente di Genova le mie riverenze e ringraziamenti pei saluti che mi ha mandati nelle lettere del segretario della sua Repubblica. Addio N. M., state allegra.
 

 

Vienna, 12 gennaio 1732

Voi sarete in mezzo a' divertimenti teatrali, ed io ho cominciato a seccarmi intorno all'Oratorio. Divertitevi voi per me; ché vi assicuro che il piacer vostro fa gran parte del mio.
Ho molto pensato per mandarvi un foglio di direzione, toccante il mio Demetrio: ma esaminando l'opera, parmi così poco intricata, che farei torto a voi ed a me se volessi istruirvi. L'unica scena un poco intricata, per la situazione de' personaggi, è quella del porto nell'atto primo, quando la regina va a scegliere, e sopraggiunge Alceste. In detta scena il trono deve stare, secondo il solito, a destra e deve avere da' lati quattro sedili o sian cuscini alla barbara, cioè due per parte; e questi servono per li Grandi del regno. Due altri somiglianti sedili debbono esser situati in faccia al trono, dalla parte del secondo cembalo, ma più vicino all'orchestra che sia possibile. Ed appresso a questi, altri tre sedili pur simili per Fenicio, Olinto ed Alceste. Onde i sedili in tutto dovranno essere nove, cioè sei per li Grandi e tre per li personaggi. Quelli però per li Grandi possono farsi attaccati a due per due per comodo maggiore: ma i musici devono avere ciascuno il suo. Se conserverete la situazione che vi ho detto, che comprenderete anche meglio nel disegno che vi accludo, troverete che tutto il resto va bene.
L'altra scena poi non facile a recitare è quella delle sedie nell'atto secondo fra Cleonice ed Alceste: debbono sedere dopo il verso: Io gelo e tremo. — Io mi consolo e spero. Alceste deve alzarsi al verso So che non m'ami, e lo conosco assai: e Cleonice fa l'istesso al verso Deh non partir ancor! Tornano entrambi a sedere al verso: Non condannarmi ancor. M'ascolta e siedi. Cleonice comincia a pianger al verso: Va: cediamo al destin; e quando è arrivata alle parole Anima mia, non deve più poter parlare se non che interrotta da pianto, e con questa interruzione ed affanno ha da terminare il recitativo. Alceste s'alza da sedere e s'inginocchia al verso: Perdono anima bella, oh Dio, perdono! e poi s'alzano entrambi ai versi: Sorgi, parti, s'è vero — ch'ami la mia virtù. Questo ordine io ho tenuto ed ho veduto pianger gli orsi. Fate voi.
L'eminentissimo arcivescovo Coloniz per far la fede della mia sopravvivenza vuol vedermi: onde non posso mandarla che nella settimana ventura.
Non vi è cosa di nuovo della malattia della madre della padrona, onde l'Issipile si farà. Vi è una parte preziosa da corsaro che raggira tutta l'opera; e sarà preziosa per il nostro Berenstadt, che insieme coll'amica rondinella abbraccio teneramente. Lo stesso dico a Bulga e a Leopoldo. Ed a voi raccomandando voi stessa intendo raccomandare il vostro N. Addio.
Avrete lo scenario, ma oggi non posso.

 

Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, disegno di Ghezzi, 1728

 

Vienna, 21 Giugno 1732

Che sconvolgimento è mai questo di tutte le cose del mondo, così picciole che grandi? Si può immaginare accidente più funesto di quello che vi scrissi l'ordinario scorso? E si può in altro genere immaginare maggiore desolazione di quella che voi vivamente mi rappresentate nella lettera di questa mattina? In somma, dove si mischia Porpora entra per necessità la disgrazia. Guardatevi per carità di non aver mai il minimo affare in sua compagnia. È però una gran cosa, che una città intera abbia a soffrir la pena de' capricci di un solo: e che per motivi così leggieri non si abbia repugnanza di nuocere a tanti, e dispiacere a tutti. Compatisco quei che risentono il danno, perché, senza questo motivo, sento la mia repugnanza ad essere indifferente.
Il padrone, dopo l'accidente funesto, tornò a Praga, dove, per quello che dicono, chiuso in una stanza senza voler vedere persona, rimase un giorno ed una notte. Il principe Eugenio fu il primo che con rispettosa violenza penetrò fino a lui, ed interruppe la sua solitudine e la profonda afflizione nella quale era immerso. Frutto della sua cura si crede universalmente l'aver permesso alla fine il padrone che per lo sconvolgimento sofferto se gli cavasse sangue, e l'essersi poi portato in Carlsbad, dove presentemente dimora e dove intraprenderà la cura già stabilita delle acque. La minore arciduchessa Marianna è stata assalita, già sei giorni sono, dal vaiuolo, notizia che accrescerà le agitazioni de’ padroni per esser così lontani da lei. È ben vero che il male non ha sintomi che minaccino pericolo ed i medici pronosticano esito felice. Intanto la maggiore arciduchessa Teresa è stata divisa dalla sorella per evitare che non le comunichi l'infermità. L'imperatrice Amalia, vedova di Giuseppe, è uscita dal suo monastero, dove vive ritirata, per assistere la suddetta arciduchessa Teresa, e coabitar seco nell'imperial Favorita finché il male dell'altra permetta che le sorelle si riuniscano.
Io sto bene di salute, ma male d'animo. Tutte queste cose mi funestano, e la pubblica malinconia si comunica insensibilmente anche agl'indifferenti. Finora non si sanno le direzioni del ritorno de' padroni. Il caso avvenuto e la malattia dell'arciduchessa si crede che lo solleciterà; ma finora sono pure induzioni. Non ho cosa che mi rallegri, se non la vostra buona salute: conservatela gelosamente e credetemi il vostro N.
Addio, N. M.

 

 

Vienna, 6 Giugno 1733

Ho passata la metà del terzo atto della mia prima opera, onde sabato che viene spero di potervi scrivere d'averla finita. Ma quando sarà che sia terminata anche l'altra, alla quale non ho né pur pensato? E pure al fin d'agosto bisognerebbe che fosse. Auguratemi salute e pazienza, che tutto anderà bene. Con tutta la mia assidua applicazione, e la stagione ben poco favorevole, io mi son quasi affatto rimesso: dico quasi, perché di quando in quando la testa non vuole stare a segno, effetto senza dubbio del poco che si traspira per cagione dell'aria umida e fresca che qui pertinacemente dura. Ed io, quanto già in Italia provava nemico il calore, altrettanto in Germania esperimento nocivo il freddo: tanto fa variar natura la variazione del clima. Io non lo sento solo in questo; le pruove continue di tolleranza alle quali io presentemente sto saldo, non sono certamente miei pregi naturali. Conosco che la tardità di quest'aria si comunica agli spiriti e ne scema la soverchia prontezza.
Eccovi un sonetto morale, scritto da me nel mezzo d'una scena patetica che mi moveva gli affetti, onde ridendomi di me stesso che mi ritrovai gli occhi umidi per la pietà d'un accidente inventato da me, feci l'argomento ed il discorso nella mia mente che leggerete nel sonetto. Il pensiero non mi dispiacque e non volli perderlo tanto più che serve per argomento della mia esemplare pietà. Leggetelo, e se vi pare, fatelo leggere. Dopo averlo composto mi è venuto a solito uno scrupolo, ed è che l'undecimo ed il decimo verso spieghino una proposizione troppo generale dicendo

... ma quanto temo o spero
tutto è menzogna...

E non vorrei che un seccapolmoni potesse dirmi:
«Non temete voi l'inferno? Non isperate voi in Dio benedetto? Or Dio benedetto e l'inferno sono a parer vostro menzogne?».
È vero ch'io potrei rispondergli:
«Signor Pinca mia da seme, lo so meglio di voi, che Dio e l'Inferno sono verità infallibili, e se non fosse questa la mia credenza, non mi raccomanderei a Dio come faccio nella chiusa: e le speranze ed i timori, di cui si parla nel sonetto, sono quelli che procedono dagli oggetti terreni».
Vedete che la risposta è assai solida, ed il contravveleno si ritrova nel sonetto medesimo. Nulla di manco ho voluto mutare l'undecimo verso per meglio spiegare di quali timori e speranze m’intendo di parlare. L'ho cambiato, l'ho fatto sentire, e trovo che non solo a me, ma a tutti gli altri ancora piace più la prima maniera, ed in quella ve lo scrivo, aggiungendo nel fine del sonetto il verso mutato, per vostra soddisfazione, e per poter contentare alcuno che vi trovasse le difficoltà mie. Leggetelo e ditemene il vostro parere, senza tacermi quello del nostro monsignor Nicolini, che mi fa molto peso dopo quella dispendiosa legatura.
Saluto tutti di casa, ed a voi raccomando il vostro N. N. M., addio.
 

 

Lettera di Metastasio

 

Vienna, 4 Luglio 1733

Mi volete suggerire un soggetto per l'opera che ho da incominciare? sì, o no? Io sono in un abisso di dubbi. Oh non ridete con dire che la malattia è nelle ossa, perché la scelta di un soggetto merita bene questa agitazione e questa incertezza. La fortuna mia si è che bisogna risolversi assolutamente, e non vi è caso di evitarlo. Se non fosse questo, dubiterei fin al giorno del giudizio, e poi sarei da capo. Leggete la terza scena dell'atto terzo del mio ADRIANO: osservate il carattere che fa l'imperatore di se medesimo, e vedrete il mio. Da ciò si comprende che io mi conosco; ma non per questo correggomi. Questa pertinacia di un vizio, che mi tormenta senza darmi in ricompensa piacere alcuno, e ch'io comprendo benissimo senza saperlo deporre, mi fa riflettere qualche volta alla tirannia che esercita su l'anima nostra il nostro corpo. Se discorrendo ordinatamente, e saviamente riflettendo, l'anima mia è convinta che quest'eccesso di dubbiezze sono i vizi incomodi, tormentosi, inutili, anzi d'impaccio all'operare, perché dunque non se ne spoglia? Perché non eseguisce le risoluzioni tante volte prese di non voler più dubitare? La conseguenza è chiara: perché la costituzione meccanica di questa sua imperfetta abitazione le fa concepire le cose con quel colore che prendono per istrada prima di giungere a lei, come i raggi del sole paiono agli occhi nostri or gialli, or verdi, ora vermigli secondo il colore del vetro o della tela per cui passano ad illuminare il luogo dove noi siamo. E quindi è assai chiaro, che gli uomini per lo più non operano per ragione, ma per impulso meccanico: adattando poi con l'ingegno le ragioni alle opere, non operano a tenore delle ragioni; onde chi ha più ingegno comparisce più ragionevole nell'operare. Se non fosse così, tutti coloro che pensan bene opererebbero bene; e noi vediamo per lo più il contrario. Chi ha mai meglio d'Aristotile esaminata la natura delle virtù, e chi è stato mai più ingrato di lui? Chi ha mai meglio insegnato a disprezzar la morte e chi l'ha più temuta di Seneca? Chi ha mai parlato con più belle massime d'economia del nostro don Paolo Doria, e chi ha mai più miseramente di lui consumato il suo patrimonio? In somma il discorso è vero ed ha salde radici; ma non curiamo di vederne tutti i rami, perché si va troppo in là.
Non vi seccate se faccio il filosofo con voi: sappiate che non ho altri con chi farlo; e facendolo per lettera mi risovvengo di quei discorsi di questa specie, co' quali abbiamo passate insieme felicemente tante ore de' nostri giorni. Oh quanta materia ho radunata di più con l'esperienza del mondo! Ne parleremo insieme una volta se qualche stravaganza della fortuna non intrica le fila della mia onorata e faticosa tela. Conservatevi voi intanto, e credete costantemente che io penso e travaglio sempre per maturare la mia prima risoluzione e non sono in cattive acque.
Addio, N. M. Io sono e sarò sempre il vostro N.

 

 

Vienna, 18 Luglio 1733

Viva per mille anni il mio augustissimo padrone, il quale ieri fece pubblicare nel supremo Consiglio di Spagna un suo veramente cesareo decreto, col quale mi conferì la Percettoria, o sia Tesoreria della provincia di Cosenza nel regno di Napoli, ufficio che non si perde che con la vita. Questo a chi lo esercita di persona rende un pingue frutto, autorità e decoro in quella provincia; ma non potendosi, o non volendosi esercitare di persona, come succede a me, si può sostituire un'altra; avendo l'espressa facoltà nel decreto di farlo, e lasciando al sostituto ogni provento, se ne ritrae, come per ragion d'affitto, una sufficiente annualità, la quale mi fanno sperare che non sarà meno di mille e cinquecento fiorini per ciascun anno. Voi vedete che la grazia è considerabile pel suo lucro; ma assicuratevi che l'onore, qual mi produce la maniera sollecita, affettuosa e clemente con cui il padrone si è degnato di conferirmela, sorpassa di gran lunga qualunque utile. Si è dichiarato alla pubblica tavola con uno de' consiglieri del Consiglio suddetto di voler ch'io l'avessi, ricordandosi delle mie fatiche e presenti e passate, ed è arrivato a dire ch'egli pretendeva questa grazia nel Consiglio per me e che per giustizia mi conveniva. Questa pubblica dimostranza di parzialità dell'augustissimo a mio favore ha fatto tale impressione che ieri, contro il solito, quando si pubblicò il decreto non vi fu alcuno dei consiglieri che ardisse di replicare una parola; ma parte dissero seccamente che si eseguisse, e parte uscirono nelle lodi della giustizia che il mio padron mi rendeva. Il più bello è che non mi sono prevaluto della minima raccomandazione per ottener simil grazia; onde la deggio interamente al gran cuore di Cesare, che Dio faccia vivere lungamente e sempre più fortunato e glorioso. Converrà adesso ch'io stringa un poco i denti per le spedizioni, che credo saranno assai dispendiose; ma comincerò subito a rimborsarmi.
Ieri dopo il pranzo, per moderarmi il piacere di questa fortuna, mi successe una disgrazia che poteva esser grande, ma non fu niente: nel salire a riconoscere il teatro della Favorita per obbligo del mio impiego, mi si staccò sotto i piedi una scala di legno, sopra la quale io era; onde, in un fascio con quella, andai a ritrovare il piano; e pure, a riserva di due leggiere ammaccature, non ne ho risentito alcun danno. Questa grazia non è stata minor della prima. In questo punto vado a dimandare udienza per ringraziare l'augustissimo padrone. Nel venturo ordinario saprete quello che mi dirà.
Addio, N. M. Il vostro N.

 

 

 

Lettere di Metastasio su Caffarelli

 

 

 

L'epistolario di Metastasio è stato edito in:

Tutte le Opere di Pietro Metastasio

in 5 volumi, a cura di Bruno Brunelli. Mondadori (1943-'54).
La ripartizione delle opere all'interno dei volumi è, circa, la seguente:
1- Drammi e opere per il teatro
2- Drammi e opere per il teatro - poesie varie
3 - 4 - 5- Lettere: 2608 + lettere senza data e lettere scritte per incarico d'altri, per un totale di 2654 lettere.

 

 

 

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A cura di  Arsace

 

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Ultimo aggiornamento: 17-10-21