(Arpino, 1684 - Napoli, post 1745)

 

          Alcune note di riflessione e di approfondimento sul talento musicale di Domenico Gizzi, sui rapporti che intrattenne con i colleghi e i compositori e  sui teatri in cui cantò, conferiscono una idea più completa dell’artista ed un significato più ricco alla sua personalità, a cui tanto merito veniva riferito sin dai contemporanei.

        Domenico Gizzi Gli anni della piena maturità artistica del sopranista sono caratterizzati non solo dall’attività di apprezzato maestro di canto, ma anche da una carriera intensa e di successo che, per alcuni lustri, lo vide impegnato nei maggiori teatri italiani, interprete di ruoli importanti nel periodo di massimo fulgore dell’opera seria barocca.

         Dopo il debutto napoletano che lo rivelò al pubblico, la sua fama si diffuse rapidamente e non mancarono ricche offerte di ingaggi, in compagnie di canto prestigiose, per le sale di spettacolo italiane del massimo rilievo.

         La sua eleganza di stile nelle apparizioni teatrali, ne facevano un autentico principe delle scene e davano certamente maggior pregio alle sue interpretazioni, guadagnando l’ammirazione ed il plauso degli spettatori.

         Con versatilità seducente, Domenico Gizzi raggiunse, ben presto, la piena padronanza delle spezie più ricercate dell’arte vocale barocca, corrispondendo felicemente alla fiducia ed al favore che un vastissimo pubblico gli riservava. La nobiltà nella recitazione, che esaltava un gusto e una finezza che ben si addiceva alla grandezza eroica dei personaggi interpretati, l’esattezza nella declamazione, la perfezione formale condotta all’estremo, una felicità di suono e di perizia tecnica, che esaltavano le sue doti naturali, gli meritarono significativi successi e grandi soddisfazioni.

 

         La sua carriera vide gli albori, certamente sotto i migliori auspici, nel momento in cui la vita musicale e teatrale napoletana raggiungeva un livello di vero splendore, con una abbondanza di spettacoli e una vitalità culturale nel genere del teatro musicale, che si giovava di un apporto raffinato e classico che non aveva paragoni in nessuna città europea.

         Le prime notizie certe, relative alla presenza di Domenico Gizzi, (alcune volte chiamato anche Egizio), sulle scene napoletane, risalgono al 1707, anno in cui l’artista canta in due opere serie dei musicisti napoletani Giuseppe de Bottis e Giuseppe Porsile, nel Teatro di San Giovanni dei Fiorentini già noto nel secolo precedente e destinato, nel Settecento, principalmente alla musica (1).

         Il Teatro aveva iniziato la sua attività musicale nel 1705, con la rappresentazione di Candaule re di Lidia, di Domenico Sarro. Distrutto da un incendio nel 1711, venne poi riaperto nel gennaio 1713.

 

         Nel momento in cui si affermava in campo nazionale l’opera dei maestri napoletani, la Città di Venezia, pur rassegnata ad un occàso politico e ad un declino inarrestabile, si confermava, tuttavia, un grande centro musicale, ospitando numerose rappresentazioni di eccezionale qualità artistica, esempi non facilmente superabili, che confermavano la persistente vitalità dell’opera tardo barocca in terra lagunare.

         Esaminando il repertorio di due prestigiosi teatri veneziani si rileva come, in quattro importanti stagioni liriche, nel giro di pochi anni, Domenico Gizzi, si impose nei drammi in musica quale interprete di sicuro valore, ammirato dal gran pubblico veneziano per l’arte della recitazione e per un timbro di voce luminoso, intenso e penetrante.

         Negli anni 1724 e 1725, egli cantò sulla scena del Teatro di San Cassiano, il primo teatro pubblico d’opera in Occidente, proprietà della Famiglia Tron, che conservava intatto il suo prestigio, impegnando scenografi, architetti e musicisti di grido, come nel caso della prima rappresentazione della Didone abbandonata di Tomaso Albinoni.  

         Negli anni 1728 e 1729 Domenico Gizzi fu nuovamente a Venezia, dove cantò nel Teatro di San Giovanni Grisostomo, il teatro d’opera più importante di Venezia, fino alla metà del Settecento, fatto costruire dai fratelli Grimani.

         Descritto nelle cronache contemporanee come uno dei migliori teatri d’Europa e realizzato secondo la concezione teatrale del Palladio e del Sansovino, scintillante di lumi e di cristalli, adornato di ricchissime decorazioni e con ordini di palchi sontuosi, ospitò molte fra le migliori e più interessanti produzioni di autori famosi.

         La frequenza degli spettacoli, l’alto livello del repertorio, la magnificenza dei virtuosismi vocali dei cantanti, la perizia degli strumentisti, insieme agli elementi pittorici e geometrici della scenografia, testimoniavano una fervida ed intensissima vita teatrale, facendo della Città lagunare una della capitali più celebrate di questo genere musicale. Nelle sere di spettacolo, una gran folla affluiva nei teatri, per esprimere, con vivacità e garbo, la propria ammirazione per i cantanti, senza sconfinare negli eccessi di fanatismo, riscontrabili in molte altre città italiane.  

         A Venezia si avevano tre stagioni d’opera: una invernale, o di carnevale, dal 26 dicembre al martedì grasso; la stagione di primavera, per la Fiera della Sensa, cioè per la Festa dell’Ascensione; la stagione autunnale dal 20 novembre alla prima decade di dicembre.

           La permanenza nella città lagunare, anche per l’ottima accoglienza riservata ai suoi talenti sulle prestigiose scene del San Cassiano e del San Giovanni Grisostomo, fu particolarmente gradita al Gizzi, come testimonia la sua istanza del 24 agosto 1728, con la quale il sopranista richiedeva licenza, alla Cappella Reale di Napoli, di poter trascorrere proprio a Venezia i mesi necessari per le varie recite della stagione autunnale del 1728 e del Carnevale 1729:

         "Domenico Gizzi [...] come si ritrova presentemente nella Città di Venezia per fare la recita dell’opera del Carnevale dell’entrante anno 1729 [...] supplica degnarsi concedere al supplicanteCarlo VI d'Asburgo, Imperatore il permesso di permanere in detta Città di Venetia" (2).

           Nel tracciare le peculiarità inconfondibili e le caratteristiche estetiche del melodramma italiano nella prima metà del Settecento e volendo descrivere lo svolgimento del teatro musicale, negli anni in cui il Gizzi si impose sulle scene italiane, giova ricordare in particolar modo l’opera seria o dramma per musica. Questa forma teatrale raggiunse il suo vertice ideale nella produzione librettistica del poeta cesareo Apostolo Zeno (Venezia 1668-ivi 1750), chiamato a Vienna nel 1718 dall’Imperatore Carlo VI d’Asburgo e, soprattutto, in quella di uno dei massimi poeti e autori drammatici italiani, Pietro Trapassi, detto Metastasio, che conseguì una rapidissima e straordinaria fortuna scenica, con i suoi melodrammi messi in scena dovunque e musicati da schiere di compositori.

         In questo primo periodo, in cui vanno delineandosi i caratteri teneri e solenni della poesia metastasiana e la limpida purezza del verso raggiunge un perfetto equilibrio, che aspira ad un ideale di classica semplicità, il nome di Domenico Gizzi compare in alcune prestigiose creazioni, iniziando da L’Angelica e La Galatea, due cantate o azioni per musica, che contribuirono a rivelare il Metastasio come poeta nel periodo napoletano.  

         Grandi riconoscimenti e vasta risonanza ebbe il Gizzi, quale applaudito interprete nelle prime rappresentazioni della Didone abbandonata, dramma per musica del Metastasio, messo in scena per la prima volta, nel 1724, al teatro San Bartolomeo, con musica di Domenico Sarro, "rivelazione d’un’arte nuova e d’un nuovo teatro" (3).

         Nel libretto, che segnava una data fondamentale nella storia dell’opera settecentesca, il poeta offriva un’anima musicale al gran tema drammatico dell’amore contrastato, immerso in un mondo idilliaco di raffinate effusioni arcadiche e di nitide forme. Nel testo poetico, i caratteri e le varietà degli atteggiamenti espressivi si scioglievano in una successione di recitativi e di arie,  in cui la melodia ed il canto avevano un assoluto predominio, con effetti altamente drammatici. L’armonico ed elegiaco orizzonte della poesia metastasiana esprimeva i moti dell’anima, con accenti sgorganti dai nobili sentimenti e dalle forti passioni umane: il senso dell’onore, il valore delle armi, morte, tradimento e gelosia.

         Con assoluta abilità, il poeta sospendeva la catastrofe fino al III atto, e poi, con il precipitare dell’azione, trascinava gli spettatori al senso dell’inevitabile tragedia, magnificamente resa sulla scena dall’avanzare delle fiamme nel palazzo di Didone.

  Didone riceve Enea - Francesco Solimena

         Domenico Gizzi fu interprete di ben tre prime versioni della Didone, rappresentate a Venezia, Reggio Emilia e Roma e poste in musica da alcuni fra i maggiori autori dell’epoca: Tomaso Albinoni, Nicola Antonio Porpora e Leonardo Vinci.

         Queste rappresentazioni, davvero memorabili, per qualità della musica, delle voci dei virtuosi e per ricchezza scenica, imposero il Metastasio come maggiore librettista ed autore drammatico dell’epoca.

         Sia a Venezia che a Reggio Emilia, la compagnia di canto era di altissimo livello e prestigio indiscusso, certamente una delle migliori del secolo, con Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, nella parte di Didone, Nicola Grimaldi, detto Nicolino, in quella di Enea e Domenico Gizzi nella parte di Araspe.

           Il maestro Tomaso Albinoni fu tra i primissimi compositori chiamati a rivestire di note la Didone abbandonata del Metastasio, pochi mesi dopo la messa in scena di esordio a Napoli, con musica di Domenico Sarro. Tale circostanza era giustificata dalla notevole fortuna con cui venivano accolti, in quegli anni, i suoi drammi di argomento eroico, presenti nei cartelloni dei principali teatri veneziani, con regolarità e vivo successo. Nato da una distinta casata veneta nel 1671, si era dedicato per molti anni agli studi musicali, ponendosi in luce, ben presto, come una delle figure di maggior rilievo della Venezia musicale.

Per l’allestimento di questa rappresentazione, Domenico attese in Venezia l’arrivo della Romanina e del Metastasio. La compagnia di canto si trattenne per molti giorni nella Capitale veneta, dove le applauditissime rappresentazioni si alternavano a feste e splendidi ricevimenti, offerti dalla nobiltà agli impresari, ai cantanti e musicisti. Questa importante affermazione servì a Domenico per rafforzare i suoi legami con il bel mondo di quella sontuosissima sede dell’opera in musica, anche in vista dei futuri impegni artistici che lo avrebbero legato, negli anni successivi, al maggior teatro della Serenissima.

 

         La Didone abbandonata con musica di Porpora, costituiva una prima assoluta appositamente commissionata per la rinomata Stagione della Fiera dell’Ascensione del 1725, che richiamava nella Città un pubblico variegato ed attentissimo. La Sala del Teatro Pubblico di Reggio Emilia era provvista di un sontuoso palco ducale e di ottocento posti, con splendide decorazioni del soffitto e dei palchi, opera dei fratelli Bibiena. Una viaggiatrice del XVIII secolo, la Du Bocage, assistette ad uno spettacolo teatrale a Reggio Emilia in occasione della Fiera. Meravigliata del grande sfarzo con cui in quella piccola cittadina venivano inscenate rappresentazioni teatrali tanto costose, si sentì rispondere che gli impresari, nelle sei settimane di spettacolo, perdevano 70.000 lire sull’opera, ma ne guadagnavano ben 100.000 sul gioco nel ridotto del teatro, occupazione preferita dagli spettatori negli intervalli fra i vari atti.

Il dramma per musica del Metastasio venne dedicato a Sua Altezza Serenissima Rinaldo I d’Este, Duca di Reggio, Modena e Mirandola, mentre le scenografie della rappresentazione "tutte di nuova invenzione", furono affidate al celeberrimo architetto Francesco Galli-Bibiena, che con la sua consumata arte incarnava l’ideale tipico dell’età barocca, di ampliare gli spazi reali del palcoscenico, illudendo sull’esistenza di altri ambienti “ad angolo”, in cui motivi architettonici con palazzi, archi e colonnati erano sviluppati in prospettiva, l’uno nell’altro, allo scopo di colpire gli spettatori con "maravigliosi apparati". La visione scenografica aveva una ragione estetica di illimitata suggestione, che poneva al centro del gusto barocco il piacere figurativo degli scenari illusori e sontuosi, attraverso la magìa degli effetti prospettici e pittorici.

Il libretto della rappresentazione, ricco di deliziose incisioni con piccoli motivi ornamentali ed amorini, testimonia lo splendore dell’allestimento, datato, nella dedica degli impresari, al 29 aprile 1725.

 

         Roma, certamente, fu una delle capitali dell’opera italiana, non meno infiammata di passione per il melodramma e per il virtuosismo canoro di Napoli e di Venezia, e vide il fiorire di spettacoli musicali in alcuni dei teatri più belli sorti nel Settecento. che in un breve Leonardo Vinci volger d’anni avevano acquistato un’autentica rinomanza internazionale.

           L’attività artistica del Gizzi sulle scene romane fu molto significativa, ricca di soddisfazioni e di riconoscimenti. Egli, infatti, cantò, con successo, nei maggiori teatri della Città: il Teatro Capranica, il Teatro della Pace, il Teatro Valle ed il Teatro Alibert, che ospitavano, in ricchi cartelloni, i melodrammi dei più affermati musicisti italiani. Il gradimento e le sentenze del pubblico romano per i cantanti e i compositori d’opera erano del massimo rilievo, al punto tale che le acclamazioni e gli applausi ricevuti nell’Urbe, costituivano un’autentica consacrazione, per cui essi non avevano più nulla a temere dalla critica o dal pubblico delle altre città.

           Ma è sul palcoscenico del Teatro Alibert, la sede più importante degli spettacoli romani dei melodrammi, che la presenza di Domenico Gizzi fu davvero autorevole e si protrasse per molte stagioni, culminando nella rappresentazione trionfale della Didone abbandonata con musica del Vinci.

           Costruito dal Conte Antonio Alibert nel 1716 e ristrutturato da Francesco Galli Bibiena, era il più grande edFrancesco Galli Bibbiena elegante teatro di Roma. Conteneva circa 2.500 spettatori, di cui 900 in platea, con 7 ordini di palchetti, 32 per ogni ordine, con una superba illuminazione, costituita da 180 coccioli ed un grande lampadario centrale a 16 torce, che spariva attraverso un foro nella volta, all’inizio dello spettacolo. Il Teatro era munito anche di riscaldamento.

I palchetti erano assiduamente frequentati dal clero, dalla nobiltà romana e dai diplomatici accreditati presso la Santa Sede.

  La stagione di Carnevale del 1722 venne inaugurata con una prima rappresentazione assoluta: il dramma per musica Sofonisba, libretto di Francesco Silvani e musica composta per l’occasione dal giovane e già affermato musicista bolognese Luca Antonio Predieri.

In quest’opera, che vide il primo trionfo di Domenico Gizzi sul prestigioso palcoscenico dell’Alibert, il virtuoso interpretò il ruolo di Masinissa, facendo conoscere i suoi talenti in due arie del Primo Atto (scene IX e XVII), due nel Secondo (scene IV e XI) e due nel Terzo (Scene II e X).

Il ricordo della rappresentazione restò a lungo nel mondo artistico romano, a motivo dell’esordio in teatro di Carlo Broschi detto Farinelli e per l’apparizione sul palcoscenico, nel corso dell’opera,  di un magnifico “carro trionfante”, trainato da due finti elefanti, al cui Luca Antonio Predieri interno agivano quattro uomini nascosti alla vista.

Come ricorda Alberto De Angelis, nella stagione suddetta, i palchetti del Teatro vennero occupati dai migliori nomi della società romana, fra cui il Cardinale Pietro Ottoboni, il Re d’Inghilterra Giacomo III Stuart (che occupava con la sua piccola corte tre palchetti del 3° ordine), il marchese Oratio Lancellotti, Don Mario Chigi, il Cardinale Acquaviva, il Cardinale da Cugna, il Cardinale Pereira, il Gran Contestabile Principe Colonna, il Principe Carlo Albani, il Principe Borghese, il Principe Altieri, il Principe Santa Croce, il Principe Carbognana, il Duca Lante, il Duca d’Acqua Sparta, la Principessa di Piombino, Don Alessandro Colonna, Mons. Filippo Vaini, il Senatore di Portogallo, il Ministro Cesareo rappresentante della Casa Imperiale d’Asburgo, il Ministro di Francia e l’Ambasciatore di Venezia.

           Ribattezzato con il nome di Teatro delle Dame, ampliato ed abbellito, riaprì nella stagione del carnevale, il 14 gennaio 1726, con l’allestimento della Didone abbandonata di Metastasio, posta in musica da Leonardo Vinci, che si rivelò uno straordinario successo e rimase in scena fino al 15 febbraio (4).

           Il grande successo della Didone Abbandonata venne riconosciuto anche dal Diario di Roma, che segnalò l’esito della prima dell’opera fra le notizie di maggior conto. Secondo quanto riferito dal giornale, gli splendori di questo dramma per musica non avevano finito di appassionare il pubblico romano, che accorreva con entusiasmo ed ammirazione alle attesissime repliche dell’opera:

           "Lunedì sera si aprì il Teatro di nuovo notabilmente ampliato, e migliorato, già del Sign. Conte d’Alibert, oggi detto delle Signore Dame, ed andò in Scena per la prima volta l’Opera in Musica intitolata La Didone Abbandonata, che riesce con molta sodisfazione ed applauso" (5).

 

Per la realizzazione delle scene della Didone abbandonata, fu chiamato in Roma uno degli scenografi più celebri e rinomati d’Italia, Alessandro Mauro, appartenente ad una famiglia di valentissimi architetti, ingegneri e pittori, attiva nei maggiori teatri europei per oltre un secolo. Al grande maestro fu affidata sia la direzione tecnica dell’allestimento che l’invenzione e la pittura delle nove “Mutazioni di Scene”, per le quali il Mauro ideò grandiosi elementi architettonici e motivi ornamentali di splendida eleganza, con decorazioni folgoranti di cornici a volute, festoni, drappeggi, luci e fregi, che esaltarono magnificamente i vari momenti dell’opera.

           Giosuè Carducci riporta la cronaca di questa fortunata rappresentazione romana del melodramma metastasiano, riferita dal gesuita Giulio Cesare Cordara, professore di retorica a Viterbo, "in un’accademia tenuta in Alessandria per la morte del Metastasio":

           "Fu recitata la Didone... per buona sorte l’aveva posta in note il Vinci, quell’insigne maestro di cappella che fu il primo ad uscire dall’antica semplicità della musica con introdurvi quelle fughe, quelle volate, que’ ritornelli che sono oggidì nel gusto corrente. Per sorte anche maggiore la parte di Didone toccò ad un tal Farfallino, che era di que’ tempi il soprano più accreditato d’Italia, e per la sua avvenenza, per l’azione, era da per tutto stranamente applaudito. 

Didone ed Enea di Thomas Jones

Le decorazioni, le comparse furono dell’estrema magnificenza, alla romana. L’orchestra corrispondente ... Ogni scena fu un continuo batter di mani. Ma chi potrebbe spiegare la commozione della platea, quando la donna innamorata, sentendosi parlar di nozze, e parlar con orgoglio dal Mauritano insolente, s’alza sdegnosa dal trono, e lo licenzia con quelle risolute parole

  "Son Regina e son amante, e l’impero io sola voglio

  del mio soglio e del mio cor? "

  Tale fu il grido, che parve si schiantasse dai suoi cardini il teatro" (6).

           Delineando il personaggio di Araspe nella Didone abbandonata, il Metastasio creò un ruolo perfettamente congeniale a Domenico Gizzi, tanto per le sue elette qualità vocali, quanto per una certa somiglianza di carattere e di temperamento.

         Araspe, confidente di Iarba, re de’ Mori e amante di Selene è un personaggio di grandi virtù morali, che effonde, con il canto, elevati e leggiadri sentimenti, facendo sfoggio di manierate e nobili sentenze.

Nei recitativi e nelle varie arie a lui affidate nella rappresentazione veneziana del 1725, fin dalle prime pagine dell’opera, Araspe esalta proprio il valore prezioso della "bella virtù", indicata come "sostegno del mondo" ed ornamento degli uomini e degli dei (7).  

"ATTO PRIMO

 

             Scena Ottava                                                    Scena XIII

              Araspe solo.                                                      Araspe

 

Empio! L’orror, che porta                                           Infelice, e sventurato

Il rimorso d’un fallo anche felice,                                   Potrà farmi il tuo rigore,

La pace fra’ disastri,                                                       Ma infedel, ma traditore

Che produce virtù, come non senti?                                     L’ira tua non mi farà.

O sostegno del mondo,                                             La mia fede, e l’onor mio

Degli uomini ornamento, e degli Dei,                                 Pur frà l’onde dell’oblio

bella virtude, il mio piacer tu sei.                                      Agl’elisi passerà.

            Se dalle Stelle                                                           Infelice &c.  (parte).

                  Tu non sei guida,

                   Fra le procelle

                   Dell’onda infida

                   Mai per quest’alma

                   Calma

                    Non v’è.

            Tu m’assicuri ne miei perigli,

                  Nelle sventure tu mi consigli,

                   E sol contento

                   Sento

                   Per te.

                   Se &c.   (parte).

 

  ATTO SECONDO

 

         Scena IV                                                       Scena XII

          Araspe                                                          Araspe

 

Tu dici ch’io non speri,                                    Tacerò se tu lo brami,

Ma no’l dici abbastanza.                                        Ma fai torto alla mia fede

L’ultima, che si perde è la speranza.                          Se mi chiami

     L’augelletto                                                     Traditor.

          In lacci stretto                                      Porterò lontano il piede,

          Perché mai cantar s’ascolta?                          Ma placati i sdegni tuoi

          Perché spera un’altra volta                            Sò che poi

          Di tornare in libertà.                                  N’avrai rossor.

    Nel conflitto sanguinoso                                            Tacerò &c.  (parte).

         Quel guerrier perché non geme?

         Perché gode colla speme

         Quel riposo che non à.

                 L’augelletto &c.  (parte).

   

ATTO TERZO

           Scena VI                                                              Scena XIII

          Araspe                                                   Araspe rivolgendosi a Didone

 

So che lasciar dovrei                                                   Già si desta

Un’amor senza speme                                                       La tempesta, 

Ma in un ben nato core                                                     Ai nemici i venti, e l’onde,

Fiamma, che pura nacque unqua non more.                          Io ti chiamo su le sponde,   

       Vorrei discogliere                                                     E tu resti in mezzo al mar.

           Le mie catene,                                               Ma se vinta alfin tu sei

           Ma il volto amabile                                             Dal furor delle procelle,

           Del caro Bene,                                                   Non lagnarti delle stelle

           Toglie a quest’anima                                           Degli Dei 

           La libertà.                                                        Non ti lagnar.

       Ancor che misero                                                        Già &c.  (parte)".

           Sia questo core,

           Pur soffre placido

           L’altrui rigore,

           L’amato carcere

           Lasciar non sa.

               Vorrei &c:

         Nella rappresentazione di Reggio Emilia della Didone, Metastasio e Nicola Porpora operarono alcuni piccoli adattamenti che riguardarono il personaggio di Araspe nel modo seguente. Nel Primo Atto, rimaneva l’aria della Scena VIII, mentre l’aria della Scena XIII era trasferita alla Scena XIV, sempre con lo stesso testo. Nel Secondo Atto, l’aria di Araspe della Scena IV era soppressa e sostituita con un Duetto fra Araspe e Selene, "Chiedi in vano amor da me", mentre l’altra aria di Araspe era anticipata alla Scena XI. Nel Terzo Atto, le due arie, con lo stesso testo, erano disposte la prima nella Scena IV e la seconda nella Scena XIII (8).  

         La rappresentazione romana della Didone ebbe una interessante peculiarità: poiché Domenico Gizzi era uno dei beniamini della platea cosmopolita ed esigentissima del pubblico del Teatro romano, Metastasio provvide a modificare appositamente il ruolo di Araspe  per il cantante, scrivendo quattro nuove arie, in sostituzione di quelle interpretate dal Gizzi a Venezia e a Reggio Emilia, al fine di esaltare, con maggiore evidenza, questo personaggio scenico, permettendo al cantante di effondersi in accenti di purissima vocalità.

         Diamo ora il testo delle nuove quattro arie scritte appositamente dal Metastasio e cantate da Domenico Gizzi nella rappresentazione romana della Didone abbandonata (9).

"ATTO PRIMO

Scena XIV

Araspe solo

                                   Lo sò, quel Cor feroce

                                   Stragi minaccia alla mia fede ancora.

                                   Ma si serva al dover, e poi si mora.

   Su la pendice alpina

                                                  Dura la quercia antica,

                                                  E la stagion nemica

                                                  Per lei fatal non è.

                        Non cede, e non rovina

                                                  Di mille etadi a fronte,

                                                  Che quanto adombra il monte,

                                                  Tanto profonda il piè.

                                                            Su la &c.

  ATTO SECONDO

                    Scena IV                                                        Scena XII

                      Araspe                                                           Araspe

 

Premio in amor non chiedo.                                        Sono intrepido nell’alma,

 Mà che nulla sperar reggia il mio Core                              E rimorso al cor non sento,

 Non vuol ragione, e nol consente Amore.                           Se con l’armi il grado adempio

                                                                                   Di Vassallo, e di Guerrier.

Amor che nasce                                           Fingo sdegno, e sono in calma,

             Colla speranza,                                              Che difender solo io tento

             Dolce s’avanza,                                              La mia gloria, e il mio dover.

             Né se n’avvede                                                       Sono &c. (parte)

             L’amante Cor.

             Poi pieno il trova

             D’affanni, e pene,

             Mà non gli giova,

             Che intorno al piede

             Le sue catene

             Gli strinse Amor.

                  Amor &c.

 

ATTO TERZO

Scena X

Araspe solo

 

   Al primo lampo solo

Di quei begli occhi alteri,

Divenner tutto fuoco i miei pensieri.

Ma quando veggio poi

La mia bella nemica in altro laccio

Tutti i pensieri miei tornan di ghiaccio.

Sorge così dal seno

    Dell’umido terreno

    Ignobile vapor,

    Del Sole allo splendor

    Fatto più lieve.

Ma se a rimote strade

    Febo rivolge il volto,

    L’umor si addensa, e cade

    In grandine raccolto,

    O stretto in neve.

              Sorge &c.  (parte)".

       Questa singolarità della Didone romana e l’attenzione del Metastasio per Domenico Gizzi, sono stati posti in luce dalla studiosa Rosy Candiani, in un acuto saggio sui primi successi teatrali del Poeta Cesareo:

         "Restano confermate la centralità del ruolo di Araspe - nuovamente interpretato dal Gizzi - e le attenzioni dedicate al cantante, poiché delle arie modificate o sostituite dal Metastasio quattro riguardano questo personaggio. In particolare, il poeta si sofferma sulla fisionomia del suddito e dell’amante fedele, sottolineandone il senso dell’onore e della virtù, difesi anche a prezzo della vita [Atto I, Scena XIV]… In questa prospettiva, Metastasio costruisce l’aria di Araspe a fine scena e quella del secondo atto (sc. 4), dedicata con dignitosa pateticità al suo amore non corrisposto; mentre la conclusione della scena 12 (atto II) sintetizza il carattere di questo personaggio" (10).

           I ricchi compensi offerti ai musici per le rappresentazioni al Teatro Alibert sono documentati dal Registro delle "Spese fatte e danari pagati per servizio del Teatro Alibert", conservato nell’Archivio del Gran Magistero del Sovrano Militare Ordine di Malta, in Roma.

         A tal proposito, è particolarmente significativo il quadro completo dei pagamenti effettuati in favore dei virtuosi, che interpretarono le due opere in musica della stagione di Carnevale del 1726, la Didone abbandonata di Leonardo Vinci e Il Valdemaro di Domenico Sarro:

- Domenico Gizzi, Musico Soprano, scudi romani 800.

- Giacinto Fontana, detto Farfallino, scudi romani 800.

- Gaetano Berenstadt, scudi romani 525.

- Antonio Barbieri, scudi romani 450.

- Gaetano Maiorano, detto Caffarellino, che esordisce ne Il Valdemaro di Sarro,

   scudi romani 160, più una somma per “guanti, scarpe ed altro”.

- Angelo Franchi, scudi romani 140.

- Filippo Finazzi, scudi romani 125, versati a Leonardo Vinci (11).

           Per la Stagione di Carnevale del 1723, l’amministrazione del Teatro Alibert effettuò i seguenti pagamenti in favore dei cantanti, interpreti dei drammi per musica Adelaide di Nicola Porpora (rappresentata con straordinario successo) e Cosroe di Antonio Pollarolo:

- Domenico Gizzi, Musico Soprano, scudi romani 700.

- Antonio Lauri, Musico Tenore, scudi romani 600.

- Carlo Broschi, detto Farinello, scudi romani 550.

- Luca Mengoni, Musico Contralto, scudi romani 400.

- Francesco Maria Venturini, Musico Tenore, scudi romani 350.

- Andrea Guerri, Musico Soprano, scudi romani 330.

- Agostino Marchetti, Musico Soprano, scudi romani 250.

- Antonio Rapinzi, Musico Contralto, scudi romani 60 (12).

   Farinelli       Accanto a Domenico Gizzi cantarono le voci più belle risuonate nei teatri europei del Settecento e nomi celebri che divennero, ben presto, beniamini del pubblico e sopranisti leggendari.

         Innanzitutto, è d’uopo ricordare il nome di Carlo Broschi, detto Farinelli, il maggiore sopranista del XVIII secolo, che figura più volte accanto a quello di Domenico Gizzi fin dagli esordi napoletani e poi in importanti rappresentazioni teatrali. Di oltre vent’anni più giovane, il genio del canto barocco testimonierà in ogni occasione una profonda amicizia e un sincero rispetto per questo suo collega più anziano, da lui ricordato sempre con affetto ed ammirazione.

         Il vero trionfale debutto di Farinello avvenne a Roma, nel gennaio 1722, al Teatro Alibert, in due opere, Sofonisba, di Luca Antonio Predieri e Flavio Anicio Olibrio, di Porpora, in cui Gizzi appare fra i principali protagonisti.  

Flavio Anicio Olibrio di Nicola Porpora

         Farinello e Gizzi, furono fianco a fianco, nella stessa compagnia di canto, anche negli anni successivi e, precisamente, nelle stagioni del 1723 e 1724 a Roma e nella trionfale stagione del 1729 a Venezia. Il fascino che promanava dalla figura del Farinello e la sua voce angelica e quasi soprannaturale, resero queste rappresentazioni davvero memorabili, consacrando in campo internazionale il sopranista come primo cantante del secolo.

 

         Anche altri famosi virtuosi furono al fianco di Domenico in importanti rappresentazioni, accolte con grande favore, che contribuirono a scrivere alcune fra le pagine più significative della storia dell'opera italiana del Settecento:   Nicolini

- Niccolò Grimaldi, detto Nicolino, Cavaliere della Croce di San Marco, presente in numerose stagioni, (1724-1725, 1728 e 1729), a Venezia, Firenze, Reggio e nuovamente a Venezia, nelle maggiori rappresentazioni in cui figurava anche il Gizzi, che lo considerò sempre un insigne collega ed un amico carissimo, degno di particolare stima ed affetto. Nel 1708, Nicola Grimaldi si recò a Londra, dove si trattenne per cinque anni, interpretando con successo straordinario numerose opere serie dei compositori Giovanni e Antonio Maria Bononcini, Francesco Gasparini, Francesco Mancini e Giovanni Maria Ruggieri. Nel 1711, al Teatro di Haymarket, egli fu l’acclamatissimo protagonista del dramma di Giacomo Rossi, Rinaldo, la prima opera composta in Inghilterra da Georg Friedrich Haendel.

 - Francesco Vitale, insigne contraltista napoletano, molto apprezzato da Alessandro Scarlatti, presente al fianco di Gizzi nelle serenate napoletane e nei primi anni di successo a Roma: nel 1719 al Teatro della Pace, nelle opere del Bononcini e al Teatro Alibert nell’anno 1722 nei drammi di Porpora e Predieri.

  - Gaetano Majorano, detto Caffarelli, l'altro maggiore sopranista accanto a Farinelli, che debuttò ne Il Valdemaro di Domenico Sarro, nel 1726 al Teatro Alibert di Roma.

Giovanni Carestini  - Domenico Annibali, detto Domenichino, al fianco di Gizzi nella prima rappresentazione a Roma, di Andromaca di Francesco Feo, de L’Eupatra di Giovanni Battista Costanzi e nella Cantata Egeria eseguita a Napoli nel 1732.

- Giovanni Carestini, nato nel 1705, "virtuoso dell’Em.mo Cardinale Cusani", in onore del quale prese il nome d’arte di Cusanino, che canta insieme al Gizzi e a Farinello nella  Sofonisba di Luca Antonio Predieri e in Flavio Anicio Olibrio di Porpora, nel 1722 a Roma.

- Gaetano Berenstadt, Musico della Real Cappella di Napoli, collega del Gizzi in alcune importanti stagioni, come quella del 1726 a Roma, nella Didone del Vinci e ne Il Valdemaro di Sarro. Il sopranista interpretò, a Londra, il ruolo di Tolomeo, nella prima rappresentazione dell’opera seria d’argomento eroico Giulio Cesare in Egitto, di Georg Friedrich Haendel, data al King’s Theatre ad Haymarket, il 20 febbraio 1724.

- Giovanni Battista Minelli, Virtuoso di S.A.S. l’Elettore di Baviera, contralto bolognese, allievo di Francesco Antonio Pistocchi, celebre per la tecnica perfetta e per l’espressività delle sue interpretazioni, che canta conGaetano Berenstadt Gizzi a Napoli, nella Serenata a Quattro Voci, musicata da Domenico Sarro. In seguito, Minelli fu al servizio della Corte imperiale d’Austria, interpretando, nel 1731, il ruolo del protagonista nella prima opera scritta dal Metastasio a Vienna, Demetrio, posta in musica dal Vice Maestro della Cappella Imperiale, Antonio Caldara.

- Il tenore napoletano Francesco Tolve, per molti anni attivo sulla scena internazionale, nelle rappresentazioni teatrali e di corte, che affianca il Gizzi in alcune cantate e serenate celebrative eseguite a Napoli. Questo cantante, nella stagione 1736-37, cantò a Londra al fianco di Farinelli, nel King’s Theatre ad Haymarket. Alunno del Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, ammesso nel 1740 nella Real Cappella di Napoli, Francesco Tolve fu uno dei maggiori tenori della prima metà del XVIII secolo, interprete,  nel corso della sua lunga e prestigiosa carriera, di ruoli importanti nelle opere dei grandi compositori dell’epoca, sia in Italia che all’estero.  

- Il basso comico Gioacchino Corrado, Musico della Real Cappella di Napoli, che canta al fianco di Domenico Gizzi nella stagione del 1707 al Nuovo Teatro di San Giovanni dei Fiorentini di Napoli, nel ruolo di Floro ne Il Ritorno di Ulisse alla patria, musicato da Giuseppe Porsile e nel ruolo di Moscone nel dramma per musica Mitilene, Regina delle Amazzoni, musicato dal napoletano Giuseppe de Bottis. Nelle stagioni successive, Corrado, in coppia con la bolognese Santa Marchesini, si specializzerà negli intermezzi comici, rappresentati fra un atto e l’altro nei drammi per musica in voga in quegli anni.

- Il tenore Annibale Pio Fabri, detto Annibalino, che canta nel ruolo di Mentore, nel Telemaco di Alessandro Scarlatti e in Berenice Regina d’Egitto di Porpora e Domenico Scarlatti nel Carnevale del 1718.  

   

         Il musicista che compare maggiormente negli spettacoli d’opera in cui Domenico Gizzi ha un ruolo significativo è Nicola Antonio Porpora.

         Questo compositore di gran merito, quasi coetaneo del Gizzi, poiché nato in Napoli nel 1686, fu tra gli allievi del Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, in qualità di convittore, nella classe di Gaetano Greco. Secondo le notizie raccolte da Charles Burney, egli avrebbe ricevuto lezioni private sui princìpi dell’arte del canto italiano e dell’armonia da Alessandro Scarlatti, la cui reputazione nell’insegnamento era altissima.

         Attivo quale Maestro al Conservatorio di Sant’Onofrio, il Porpora si dedicò, ben presto, al pari del Gizzi, all’insegnamento privato del canto, istruendo molti fra i più celebri cantanti del XVIII secolo, come Carlo Broschi, detto Farinello, Antonio Hubert, detto Porporino, Gaetano Majorano, detto Caffarelli, Felice Salimbeni, Emilia Molteni, Regina Mingotti e Caterina Gabrielli. Il giovane Nicola Porpora

          I dati biografici di sicura affidabilità fanno risalire l’inizio di questa amicizia privilegiata fra il Porpora e il Gizzi al periodo della loro formazione musicale nell’ambiente dei conservatori napoletani e all’epoca dei loro primi servizi musicali nelle chiese e nelle cerimonie pubbliche, in cui sicuramente entrarono in stretto contatto. Comunque, per l’ascesa dei musicisti napoletani di quella generazione, fu determinante il clima politico e culturale instauratosi a Napoli con l’avvento del Viceregno austriaco, nel 1707, che favorì l’immensa fortuna del Porpora nella produzione dei drammi per musica di impianto arcadico e del Gizzi nell’insegnamento e nella interpretazione dell’opera italiana tardo-barocca.

L’intesa del cantante con questo fecondo autore iniziò con l’allestimento romano di  Berenice, Regina d’Egitto, messa in scena al Teatro Capranica nella stagione del Carnevale del 1718, composta in collaborazione con Domenico Scarlatti e dedicata alla Contessa Ernestina Dietrechstein, moglie del Conte di Gallas, Ambasciatore austriaco a Roma.

In questo dramma per musica, Gizzi interpreta il ruolo di Alessandro, giovane e fiero principe egizio, educato a Roma, che vuole conquistare la Regina Berenice d’Egitto e sua promessa sposa, con le sole armi dell’amore. L’attenzione degli spettatori è tenuta viva da un intenso dualismo, presente in tutto il corso dell’opera, che vede contrapposti Gizzi, nel ruolo di Alessandro intento a conseguire la vittoria morale dell’amore e dell’innocenza sugli intrighi politici dettati dalla potente politica di Roma e Fabio, interpretato dal grande tenore Annibale Pio Fabri, che rappresenta, invece, la ragion di Stato e le grandi mire di Roma.  

"ATTO PRIMO

Scena XIV

Alessandro

 

Sì giusto consiglio,

      Io lessi in quel ciglio,

      Che legge mi dà:

Al fido mio core,

      Maestra d’Amore

      Fu quella Beltà.

          Sì giusto &c.  (parte).

 

 

ATTO SECONDO

Scena IV

Alessandro

 

Mio bel Sol dove t’aggiri,

      Ciò che tocchi, ciò che miri,

      Adorar conviene a me,

Dove spiri, e dove passi,

      Bacio l’avre, adoro i sassi,

      Che premesti col bel piè.

   Mio &c.

 

 

Scena V

Alessandro

 

La bella mano,

       Che mi piagò

       Senza del core

       Stringer non vuò.

Me l’offre in vano

       Freddo timore

       Doppo che amore

       Me la negò.

La bella &c.".

Nella Scena VI del Terzo Atto, nel corso di un concitato confronto con Fabio, il Principe Alessandro con un intenso recitativo a cui segue un’aria sentimentale, confessa che il suo cuore, seguirà la legge dell’Amore e non quella della ragion di Stato. E nella parte conclusiva del recitativo, sempre rivolto a Fabio canta con fierezza le seguenti parole:

"Se nel Ciel è prescritto,

Che splenda in questa chioma

Il Diadema d’Egitto,

Da Berenice il voglio, e non da Roma.

In quella sola, in quella

      Candida mano, e bella,

      Ha posto la mia sorte il Dio d’Amor:

Da quella il proprio fato,

      Sia misero, o beato,

      Sia di vita, o di morte, aspetta il cor.

In &c. (parte)" (13).

           La collaborazione con il Porpora continuò a Roma anche negli anni successivi del 1722-1723, in cui il Gizzi fece parte della prestigiosa compagnia di canto del Porpora, nelle rappresentazioni al Teatro Alibert.

         Il dramma per musica Flavio Anicio Olibrio, su libretto di Apostolo Zeno e Pietro Pariati, rappresentato al Teatro Alibert nella stagione di Carnevale del 1722 segnò l’esordio sulle scene romane di Carlo Broschi, detto il Farinello. Nell’opera, Domenico interpretava il ruolo di Olderico, Principe Goto, mentre Farinello appariva in scena nei panni femminili di Placidia, figliola di Valentiniano III e amante del generale romano Flavio Anicio Olibrio. Di significativa attrattiva, in quest’opera del Porpora, sono la vibrante Scena XV, conclusiva del I atto, affidata a Domenico Gizzi e la Scena IX dell'atto terzo, in cui si esibirono con un recitativo ed un’aria ciascuno Farinello e Gizzi, rivaleggiando nelle linee vocali di un universo magico, nel genere sentimentale ed amoroso.

ATTO TERZO

Scena IX

 

Old. Tanta pietà per Roma? e sì crudele

         Al tuo Olibrio, Placidia?

Plac. Io son Romana

                  Prima, che amante. Assolve i falli miei

                  La virtù, ch’è comune alle nostr’alme.

Old. Ma se cinto di palme

         Ritorna Ricimero?

Plac. Non vincerà. Serve ad un grand’amore

                  Sovente la fortuna: e i giusti Dei

                  Ascolteran propizj i voti miei.

                                         Numi, voi, ch’in Ciel regnate

                                               Per pietà non mi serbate

                                               A sì fiero ingiusto affanno.

                                        Pria, ch’estinto, ò fra catene

                                               Io rimiri il mio Tesoro,

                                               Uno strale a me vibrate,

                                               Che mi tolga alle mie pene,

                                               Che m’involi il rio Tiranno.

                                                       Numi &c.    parte.

Old. Degna sei di pietade, e degno ancora

         Di pietade son’io, ma non la trovo,

         E sol’amando provo

         Il disprezzo, e’l rigore;

         E pur lasciar non posso

         Quell’ingrata beltà, che mi disprezza,

         Anzi l’amo così, che ogn’or con lei

         Stan tutti i pensier miei;

         E se qualche momento

         Alcun di lor dal caro ben desvìo,

         Soffro sì fier tormento,

         Che a lui tosto sen riede il pensier mio.

                                        Il rio dal mar si parte

                                               Per le nascoste vene:

                                               Và per ignote arene,

                                               Ma poi ritorna al Mar.

                                        Così mi parto anch’io,

                                               Ma poi del caro volto

                                               Tornar m’è forza, oh Dio

                                               I lumi a vagheggiar.

                                                        Il rio &c." (14).

          La rappresentazione della Didone abbandonata, nel 1725 a Reggio Emilia segnò uno dei culmini della collaborazione fra il Metastasio, il Porpora, (che già aveva posto in musica, a Napoli, la prima produzione drammatica del poeta), Marianna Benti Bulgarelli ed i virtuosi Nicola Grimaldi e Domenico Gizzi. Conte Luigi Raimondo d’Harrach

In seguito, il Metastasio affidò al Porpora la composizione della musica per il suo nuovo dramma per musica Ezio, rappresentato per la prima volta il 20 novembre 1728, nella Stagione autunnale del famosissimo Teatro di San Giovanni Grisostomo a Venezia.

Nella lettera dedicatoria del libretto, indirizzata al Conte Luigi Raimondo d’Harrach, Viceré del Regno di Napoli, il responsabile del Teatro, Domenico Lalli confermava gli stretti legami esistenti fra la Corte vicereale partenopea ed il mondo musicale veneziano, ponendo ben in luce che questo attesissimo "Drammatico Componimento" era stato appositamente scritto "da Celebre, e Famoso Poeta" per le scene del San Giovanni Grisostomo (15).

In quest’opera, a Domenico Gizzi venne riservato il ruolo di Valentiniano III, personaggio di primo piano, accanto a quello del protagonista Ezio, interpretato da Nicola Grimaldi, detto Nicolino. Con i suoi “affetti” davvero regali, solenni e magnanimi, al personaggio scenico interpretato dal Gizzi, ben corrispondevano alcune Arie, sostenute da magnifiche melodie vocali, fra cui quella posta nel cuore dell’opera, a chiusura del II atto, in un momento privilegiato del dramma e l’aria che riassume con maestria i valori morali e a cui è affidata la fine dell’opera.

"ATTO SECONDO

Scena XVI

 

            Valentiniano III

 

Sdegno, amor, gelosia, cure d’impero

Che volete da me? Nemico, e amante,

E timido, e sdegnato a un punto io sono,

E intanto non punisco, e non perdono.

Ah lo so, ch’io dovrei

Obliar quell’ingrata. Ella è cagione

D’ogni sventura mia: ma di tentarlo

Ne pure ardisco: e da una forza ignota,

Così mi sento oppresso,

Che non desio di superar me stesso.

                                          Che mi giova impero, e soglio,

                                               S’io non voglio

                                        Uscir d’affanni,

                                         S’io nutrisco i miei tiranni

                                         Negli affetti del mio cor.

                            Che infelice al mondo io sia,

                                          Lo conosco, è colpa mia.

                                          Non è colpa dello sdegno,

                                          Non è colpa dell’amor.

 

Fine dell’Atto Secondo.

 

 

ATTO TERZO

 conclusione della Scena Ultima

 

Ez.     Concedi Augusto

                    Di Massimo la vita a i nostri prieghi.

 

Val.     A tanto intercessor nulla si nieghi.

                          Della vita nel dubbio camino

                                Si smarrisce l’umano pensier.

                          L’innocenza è quel raggio Divino,

                               Che rischiara frà l’ombre il sentier" (16).

 

           Mentre ancora non si spegnevano i bagliori del vivo successo di quest’opera del Porpora, una nuova ricchissima stagione si annunciava per le rinomate scene del Teatro Grimani di San Giovanni Grisostomo. Tre i drammi per musica in cartellone, che segnavano l’esordio di Farinello nel massimo Teatro della Serenissima: Semiramide riconosciuta, libretto del Metastasio e musica del Porpora; Catone in Utica, libretto del Metastasio e musica di Leonardo Leo e, per l’ultima sera del Carnevale L’Abbandono di Armida con musica del Vice Maestro della Cappella Ducale di Venezia Antonio Pollarolo. Le magnifiche scenografie erano affidate ai fratelli Giuseppe e Domenico Valeriani, ingegneri del Teatro e pittori di S.A.S. il Principe Elettore di Baviera.  

Semiramide - Guercino - 1645

         Nel dramma Semiramide riconosciuta, a Domenico Gizzi venne affidato un ruolo non di primissimo piano, quello di Sibari, confidente e amante di Semiramide, che comunque gli consentì di porsi in evidenza con quattro arie, disposte nel corso dei tre atti dell’opera.

Nel periodo di queste opere interpretate a Venezia da Domenico Gizzi, il Porpora risiedeva nella città lagunare, in qualità di Maestro nel Conservatorio musicale femminile, dell'Ospedale degli Incurabili. I suoi drammi per musica erano giudicati fra le migliori creazioni nel genere dell’opera eroica, per la sapiente scrittura musicale e l’incantevole effusione lirica, esempi emblematici di uno stile italiano efficace ed espressivo.

         Questa serie di titoli su cui abbiamo notizie certe, induce a pensare ad un legame diretto, non solo di natura professionale, ma di fiducia e di sincera considerazione reciproca, fra il Porpora e il cantante, apprezzato interprete nelle prime rappresentazioni dei melodrammi che il maestro componeva e metteva in scena, su commissione dei principali teatri d'Italia. 

         Nella stagione del carnevale del 1718, Alessandro Scarlatti ottenne una licenza dalla Cappella Reale di Napoli, per recarsi a Roma, a dirigere la prima rappresentazione di una delle sue ultime opere, il Telemaco, prodotta per il Teatro Capranica e dedicata al Conte di Gallas, Ambasciatore austriaco presso la Santa Sede.

         Modificato nel palcoscenico e nell’illuminazione da Filippo Juvarra, con una pianta a U e 6 ordini di 27 palchi ciascuno, questo teatro, noto per la sontuosità degli allestimenti scenici, era frequentato da un vasto e raffinato pubblico di cardinali, diplomatici esteri e nobili, con il consueto corteggio di galanteria.  Situato nei pressi della Chiesa di Santa Maria in Aquiro, in un antico palazzo della nobile Famiglia da cui prendeva il nome, il Teatro Capranica, ricco di ornati e di splendide dorature,  viveva un momento particolarmente florido.

         Autore del libretto del Telemaco fu una vecchia conoscenza di Scarlatti, il letterato Carlo Sigismondo Capeci (1652-1728), socio dell’Arcadia e segretario della Regina di Polonia Maria Casimira, vedova del Re Giovanni Sobieski, durante gli anni della sua fastosa e contrastata residenza in Roma.

Dal punto di vista degli apparati scenici, questo drammatico componimento costituiva un trionfo delle splendide scenografie del barocco romano più maturo, con ben nove mutazioni di scena, ideate dall’architetto Antonio Canevari e dipinte da Giovanni Battista Bernabò, a cui si univanoscalinatadonore grandiose macchine sceniche di gusto seicentesco in vari momenti del dramma, opera del Cav. Lorenzo Mariani di Todi, che destarono lo stupore e l’ammirazione degli spettatori. Nel Primo Atto, ad esempio, comparivano in scena il Carro di Nettuno trainato da Tritoni ed altri Mostri Marini e il Carro di Minerva sopra le nuvole. Nel Terzo Atto, il Colosso di Atlante sosteneva il globo del Cielo, che, aprendosi, mostrava Minerva ed altre deità sui loro troni. Fra i balli, quello dopo il Secondo Atto, mostrava dei Vasi di fiori che si mutavano in Fontane con gli Uccelli e poi in Giardiniere!

           L’opera venne allestita in un momento importante della vita artistica di Alessandro, quando egli era in diretta competizione con il figlio Domenico, che nella stessa stagione e nello stesso teatro, aveva in cartellone un dramma per musica composto in collaborazione con Porpora.

         Per questo, Alessandro affidò il ruolo principale di Telemaco a Domenico Gizzi e lo condusse con sé a Roma. Scarlatti scelse così un cantante di sicuro talento, già suo allievo nel periodo di formazione e da molti anni a suo diretto contatto nella Real Cappella di Napoli, ben conscio, quindi, delle reali esigenze artistiche del maestro e della sua intensa ricerca di una feconda sintesi, rivelatrice di un geniale magistero inventivo, fra il patrimonio stilistico ereditato dagli autori del passato e le poliedriche esigenze musicali del barocco più maturo.

         Gizzi, dunque, partecipò come interprete ad una autentica “sfida fra giganti”, che vedeva fronteggiarsi con le armi della musica due insigni maestri italiani, (padre e figlio!), in un cimento artistico memorabile.

         Carlo Scalzi, giovane virtuoso genovese Possiamo davvero immaginare il clima delle prove del melodramma e la perizia minuziosa di Alessandro, nell’allestire "la centesima nona Opera Teatrale da lui composta" (17), come assicurava il libretto!

         Il Telemaco appartiene all’ultima produzione drammatica del maestro, in cui egli utilizza i recitativi accompagnati per cesellare, con raffinatezza, i momenti di maggiore tensione emotiva dell’azione scenica. In  questi recitativi, l’orchestra accompagna la voce del cantante,  ed interviene con propri interludi, fra le frasi vocali, come nella scena XI del I atto. Sempre per la struttura orchestrale, fra gli strumenti a fiato, il corno viene trattato come strumento “obbligato”, svincolato, cioè, dalla mera funzione di accompagnamento e chiamato a valorizzare, in alcuni momenti dell’opera, l’intensità espressiva e l’efficacia drammatica, con il fiorire di una linea melodica di sinuosa morbidezza.

         In questo dramma per musica, a Domenico Gizzi vennero affidate cinque arie, due duetti ed un pezzo a quattro, distribuiti nel corso dei tre atti nel modo seguente: un’aria ed un duetto nel Primo Atto, un duetto e tre arie nel Secondo, un’aria ed un pezzo a quattro voci nel Terzo Atto. Nei due duetti, l’altra voce, nel ruolo di Erifile, è quella del giovane virtuoso genovese Carlo Scalzi, che si farà onore in una lunga ed apprezzata carriera in Italia e all’estero.  

"ATTO PRIMO

Lido del mare  e facciata del Tempio di Nettuno

Conclusione della Scena III

Telemaco e Erifile

 

Erif.   L’alma mia par che voglia

          Seguirlo.

Tel.    Io parto, mà col Cor qui resto.

          Vacilla, e trema il piede,

               Come nel petto il Cor.

               E l’Anima prevede

               Tempeste più funeste

               Nel pelago d’Amor.

 

Scena IX

Atrio, ò Cortile del Palazzo Regio di Calipso

Duetto di Telemaco e di Erifile

 

Tel.   Tù non intendi amor, quando per tutto

         Il tuo volto l’accende?

Erif.  Vieni ò Signor, che la Regina attende.

 

Tel.  Tù non conosci amor,

            E la sua face ogn’hor, egli hà da te.

Erif. In libertà vuò il cor,

            Se porto i lacci al piè.

            Amor non so, che sia;

Tel.  Lo sà quest’alma mia

Erif.      Mà di servir la fè.

Tel.  Che in pace più non è.

                 Tu non &c. (partono).

 

ATTO SECONDO

Bosco che poi si muta in ameno Giardino

Scena XII - Conclusione

Telemaco

 

E’ sognato, ò pur vero

Mio Cor quello che udisti?

Che Erifile gradisca

L’amor mio, che pur m’ami,

Forse era da sperar; mà che consenta

Calipso a quest’amore, e dall’istessa

Erifile mi vogli

Renderne assicurato:

Ah che, se è vero, i miei passati mali

Con troppa usura, mi compensa il Fato.

Cede al Vento, cede al Mare

      Combattuta Navicella,

      Ne la regge più il Nocchier.

      Mà se in Porto la fà entrare

      Quella istessa ria procella:

      Loda il Vento, e loda l’acque,

      D’onde nacque il suo piacer.

Cede &c.

ATTO TERZO

Portico del Palazzo di Calipso

Scena Prima

Telemaco, rivolto ad Erifile

 

Risolvo d’adorarti, e di morire.

O a morire, ò a goder

      M’hà da guidare amor,

      O goderò morendo,

      O morirò godendo,

      Trafitto dal piacer,

      Più che dal ferro ancor.

O a morire &c (parte)" (18).

 

         Secondo la cronaca di Filippo Clementi, quest’opera di soggetto mitico e fiabesco, densa di intrighi amorosi e cortigiani, conseguì uno "strepitoso successo" (19).

          L’incontro di Domenico Gizzi con il teatro musicale del grande compositore modenese Giovanni Bononcini, avvenne nella stagione di carnevale del 1719, nel piccolo Teatro romano della Pace, situato nella via omonima, che era stato rinnovato completamente nel 1717 dal bolognese Domenico Maria Vellani e godeva dell’autorevole protezione del Cardinale Pietro Ottoboni. Il sopranista fu uno degli interpreti principali della favola pastorale in cinque atti Erminia e del dramma per musica L’Etearco, su libretto di Silvio Stampiglia, accanto al celebre contraltista napoletano Francesco Vitale.

         Annibale Pio Fabri, tenore, collega di Domenico Gizzi  Tornato a Roma nel 1714, dopo un lungo periodo di permanenza a Vienna, in qualità di Compositore di Corte di Leopoldo I e Giuseppe I d’Asburgo, Giovanni Bononcini godeva di una larghissima fama internazionale. Chiamato al servizio dell’ambasciatore austriaco presso la Santa Sede, Johann Wenzel, Conte di Gallas, egli si trattenne a Roma fino al 1719.

         Queste due opere furono le ultime che il Bononcini presentò sulle scene italiane, alla vigilia della sua partenza per Napoli, dove seguì il Conte di Gallas, nominato Viceré dall’Imperatore austriaco. Alla morte del Viceré, avvenuta il 25 luglio 1719, poche settimane dopo il loro trasferimento nella città partenopea, Bononcini decise di recarsi a Londra, dove era stato chiamato a ricoprire la carica di Direttore Musicale, accanto ad Attilio Ariosti e Georg Friederich Haendel, della Royal Academy of Music, fondata sotto gli auspici del Re d’Inghilterra, Giorgio I.

           La Favola Pastorale Erminia si ispirava al Canto Settimo del celeberrimo poema epico Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. 

Nella pomposa ed aulica Lettera dedicatoria del libretto, "All’Eccellenza del Signor Wincislao, Conte di Galasso, Ambasciadore Ordinario di S.M.C.C. alla Santa Sede", l’autore, l’Accademico Quirino Gaetano Lemer, mostrava di apprezzare il valore del Bononcini ed i legami del compositore con l’illustre diplomatico austriaco, noto per il suo amore per il teatro musicale:

           "Vi si aggiugne, che era questa Favola a Voi dovuta, perche ed il Teatro dove si aggisce, è nella vostra Clientela, ed il Compositore della Musica l’abbiamo per benefizio vostro: il quale Compositore, siccome dottissimi uomini si sono intorno alla vera eloquenza in questo secolo affaticati per renderla al primo onore: così ora con alcun’altro in questa facoltà s’affatica, studiandosi di ridurla alla norma della natura, da cui era per longhissimo tratto deviata" (20).

           Bononcini compose per Domenico Gizzi il ruolo del personaggio protagonista, offrendogli una serie di arie scritte appositamente per esaltare le grandi capacità vocali del cantante. Uno dei momenti più alti dell’opera è la Scena Prima dell’Atto Secondo, in cui il compositore affida a Domenico un intenso recitativo ed un’aria d’amore di grande effetto e di massima resa sulla scena. E’ un autentico momento di grazia, in cui il cantante può sedurre il pubblico con l’artificio musicale dell’imitazione dell’eco e del canto dell’usignolo, nello stile patetico ed elegiaco carico di sottile emozione, proprio del genere arcadico e pastorale:

  "Erminia sventurata:

                  Che fai tra queste Selve,

                  Donna, imbelle, Regale.

                  Sola fra il gregge, e d’armi cinta?

                  Amore Ti diè ardir, ti diè core

                  Di gir nel Campo de’ nimici irati,

                  Sì vicina ti scorse

                  Al tuo Tancredi; e poi

                  Così tutti deluse i pensier tuoi.

                  O cieco Amor crudele:

                  O fato: i miei tormenti

                  Avran fine giammai?                       Ai

                  Chi m’ascolta, e chi risponde, oh Dio       Io

                  L’infelice sei, che parli meco,

                  Per amor nuda voce all’aere cieco.      Eco.

 

                                Eco ascosa; e tu mesto Usignolo,

                                     Che accompagni col canto il mio duolo,

                                     Non più l’Aure gemendo rompete.

                               Destan sol le tue voci, il tuo canto

                                     Sù i miei lumi un più tenero pianto:

                                     Eco mesta; Usignolo tacete.

                                                          Eco &c." (21).

 

           Anche il Diario di Roma, nell’edizione del 15 febbraio 1719, riferì il pieno successo conseguito dalla Favola Pastorale Erminia, ponendola fra le "tre opere tutte bellissime" che avevano impreziosito la stagione teatrale romana del Carnevale di quell’anno (22).  

           Il dramma per musica L’Etearco, costituiva in massima parte una ripresa dell’omonima opera rappresentata a Vienna nel 1707. Nella lettera dedicatoria della rappresentazione romana, l’autore del libretto, Silvio Stampiglia, si rivolgeva alla Signora Ernestina di Dietrechstein, moglie dell’Ambasciatore austriaco Conte di Gallas, con toni di legittimo compiacimento, rammentando l’ottimo successo conseguito nella capitale imperiale dal dramma del Bononcini:

           "Eccellentiss.ma Signora

         L’Etearco ebbe l’onore di venire alla luce per comandamento Augustissimo, e comparve fortunatamente in Vienna sù le Scene della Corte Imperiale alla presenza della Clementissima Casa d’Austria. Ora esponendosi nel Teatro della Pace alla vista di Roma tocca all’E.V. il patrocinarlo, perchè essendo egli Creatura di un Cesare gloriosissimo, è impegno della Vostra Cesarea rappresentanza il proteggerlo" (23).

           In L’Etearco, Bononcini affidò a Domenico Gizzi il personaggio scenico di Mirene, Dama principale di Asso, un ruolo ben scolpito con otto arie col da capo, disseminate abilmente nel corso dei tre atti dell’opera. Ne riportiamo alcune, fra le più significative, quasi un caleidoscopio dei vari affetti espressi in musica, nella concezione estetica dell’opera seria del periodo tardo barocco.  

"ATTO PRIMO

Scena V

Parte della Città vicino al Porto

                                Pensieri chi aita

                                     Un’alma smarrita,

                                     Un povero cor ?

                                     Vi chiedo consiglio,

                                     Ch’è fiero il periglio,

                                     Crudele il timor.

                                         Pensieri &c.

 

ATTO SECONDO

Scena I

Sala Reggia

                                 Mostrati più crudele,

                                     Che più sarò fedele

                                     A chi m’innamorò.

                                     Non paventar mio core,

                                     Ch’io manchi al primo amore:

                                     Consolati alma mia,

                                     Che pria

                                     Morir saprò.

                                        Mostrati &c.

 

ATTO SECONDO

Scena VI

Deliziosa con fonti, e Ruscelli presso le mura d’un antico Palazzo

 

                  Da questa Selva aprica

                  Passo alla Reggia antica

                  A viver prigioniera in chiuse mura;

                  La tua vita assicura,

                  Non pensare alla mia:

                  Addio, e questo addio

                  Chi sà, cor mio, che l’ultimo non sia.

                            Se mai

                                Saprai,

                                     Che il Ciel crudele

                                     Mi volle estinta, sospira, e dì:

                                     Mirene mia visse fedele,

                                     Mirene mia fedel morì.

                                     E doppo morte a te d’intorno

                                     Verrò di notte, verrò di giorno

                                     Cangiata in ombra fedel così.

                                                 Se &c.

 

          Per il Prof. Lowell Lindgren, noto anche per aver fornito al sito la sua ricerca sulle motivazioni che portarono alla rovina Giovanni Bononcini sulla scena londinese, l’aria conclusiva dell’Atto Secondo, non presente nella prima versione viennese del 1707, venne scritta da Bononcini appositamente per il ruolo di Domenico Gizzi, nella rappresentazione romana del 1719:

ATTO SECONDO

Scena XI (ultima)

 Stanza angusta con picciol lume 

                                     

      Barbari siete ò Dei:

                                     Chieggo la morte in dono

                                     Nè pur morir poss’io,

                                     Mà penar deggio, oh Dio,

                                     Di duolo in duolo.

                                     Misera quanto sono:

                                     Poveri affetti miei,

                                     Barbari siete, oh Dei,

                                     Se il Ciel non mi ferisce,

                                     O s’apre il suolo.

                                               Barbari &c.

 

ATTO TERZO

Scena VII

Atrio

 

                       Amore inganna, e piace,

                                     Che immagini figura

                                     Come le brama il Cor.

                                      E lusinghier sagace

                                     Sà far, che la sventura

                                     Bella rassembri ancor

                                             Amore &c." (24).

 

           Preceduto da una reputazione di gran fama, Gizzi non tardò a ricevere vivi consensi anche nella Città di Palermo, dove egli si recò nel 1720, per aggiungere nuovi allori, a quelli già raccolti nelle altre città italiane, cantando nel Teatro di Santa Cecilia, sede prestigiosa di spettacoli, che ospitava drammi musicali con il concorso dei maggiori virtuosi di canto dell’epoca. L’opera prescelta dal valente impresario Simone Bellucci, fu il dramma Ginevra Principessa di Scozia, su libretto di Antonio Salvi e musica di Domenico Sarro, rappresentata su incarico del Viceré di Sicilia, Niccolò Pignatelli e Aragona, Duca di Monteleone e Terranova, per festeggiare l’onomastico dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo e della Regina Elisabetta Cristina, rispettivamente il 4 e il 19 novembre, nel Palazzo Reale e nel Teatro di Santa Cecilia (25).  

In questo dramma per musica del Salvi, ispirato al V Canto dell’Orlando Furioso dell’Ariosto, Domenico Gizzi era chiamato a cantare nelle vesti di Ariodante, Principe Vassallo e amante della Principessa Ginevra, una figura ideale per una serie di arie d’azione e di sortita ben disposte nella trama dell’opera, che si segnalava per le tonalità e le atmosfere notturne vagamente preromantiche (26).

         La vita culturale di Palermo viveva un momento di grande vivacità, dovuto alla presenza di un singolare musicista Emanuele Rincon d’Astorga, Barone dell’Ogliastro e di uno dei massimi compositori dell’epoca, il figlio d’arte Domenico Scarlatti, aggregato al sodalizio dei Musici di Santa Cecilia e forse incaricato della revisione dell'opera. La partecipazione all’evento offrì al sopranista un’occasione per rinsaldare i vincoli di amicizia e di affetto con il giovane Scarlatti, quasi suo coetaneo, formatosi in Napoli, negli stessi anni del cantante, sotto la ferrea disciplina artistica del padre Alessandro.

 

         La dimora di Domenico Gizzi in terra siciliana non fu breve né occasionale (27). Gli studiosi napoletani Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, hanno rinvenuto importanti notizie sulla presenza del Virtuoso della Real Cappella di Napoli nel Teatro d’opera di Messina, “La Munizione”, nel periodo a cavallo tra il 1719 e il primo semestre del 1720:

         "Il 14 dicembre del 1719 Gizzi chiede licenza “humilmente, come essendo stato chiamato per il Teatro di Messina dal Signor Vice Rè ... per rappresentare l’opera in musica”, la richiesta è accettata ed eseguita il 16 dello stesso mese; la partenza avviene prima delle festività natalizie “riducendosi tutta la mancanza” presso il servizio alla Cappella “alla sola notte di Natale” e l’assenza  prevista “fino alla seconda settimana di quaresima acciò nella Settimana Santa non faccia mancanza”. Domenico Gizzi non tenne fede alla scadenza datagli ed il 27 aprile del 1720 scriveva “come ritrovandosi in Messina con licenza per recitare le opere ... viene hora apprettato di recitare un’altra opera che deve farsi” e pertantoFrancesco Galli Bibbiena chiede una deroga della licenza fino a maggio". (28).

           La collaborazione con Leonardo Vinci, a sua volta, riguarda un altro titolo di particolare rilievo, il Farnace, la prima opera del maestro rappresentata a Roma, nel Carnevale del 1724, al Teatro Alibert, sotto il regale patronato della Famiglia Stuart, su libretto di Antonio Maria Lucchini e con Domenico nel ruolo del protagonista.

         Secondo il Prof. Saverio Franchi, le splendide e grandiose scenografie che, nel corso dei tre atti, prevedevano ben 13 “Mutazioni di Scene”, furono curate dal celebre architetto Francesco Galli-Bibiena.

         Giudicato fra le migliori composizioni del maestro, questo dramma per musica ebbe un lietissimo incontro, con applaudite repliche che assicurarono al nome del loro autore una celebrità assoluta ed un posto distinto fra tutti i compositori teatrali del XVIII secolo.

Come riferisce Charles Burney, l’opera Farnace ebbe un successo così grande che il Vinci fu incaricato di fornire allo stesso teatro un dramma per musica all’anno, fino al 1730, epoca della morte del musicista (29).

           Le arie affidate da Leonardo Vinci a Domenico Gizzi, nel ruolo eroico di Farnace, descrivono varie situazioni sceniche: è presente lo stile grandioso dell’aria di trionfo, in cui il Re del Ponto esprime con accenti guerreschi i suoi propositi di orgogliosa sfida ai romani, insieme ad alcune arie di rara emozione in cui gli affetti dell’amore contrastato e del sentimento patetico sono abilmente evocati. Nel nuovo stile del Vinci, la melodia elegante, finissima e di squisita fattura “alla moda” delle sue arie, si univa ad un “recitativo accompagnato” di grande attrattiva e sensibilità, che avrebbe ben presto conquistato il pieno favore in tutti i teatri d’Europa.

"ATTO SECONDO

Scena VIII

 

                                                  Perdona, o Figlio amato,

                                                      Perdona al Genitor,

                                                      Che sol per troppo amor

                                                      Ti fu spietato.

                                                 S’io piango sol per te,

                                                      Non ti lagnar di me,

                                                      E negl’Elisj, oh Dio,

                                                      Non dir: fu il Padre mio,

                                                      Che mi ha svenato.

                                                           Perdona &c.

 

ATTO SECONDO

Scena XIII

 

                            Ammiro il tuo

                            Generoso, e magnanimo ardimento;

                            Ma Compagni non voglio al gran cimento.

                                           Spogli pur l’ingiusta Roma

                                               Di corona la mia chioma,

                                               Il mio piè di libertà.

                                           Serbo ancor tanto d’orgoglio,

                                               Che al mio nome il Campidoglio

                                               Di spavento tremerà.

                                                       Spogli &c.

 

ATTO SECONDO

Scena XIX

 

                            Sì: qualche Nume, o qualche Stella al fine

                            Ne darà qualche aita. Occulti i semi

                            Son del bene e del male:

                            E per non variar, troppo vicini

                            L’amarezze, e le gioje hanno i confini.

                                           S’arma il Cielo di tuoni, e di lampi,

                                               E spaventa le Ninfe, e i Pastori;

                                               Poi delizia il terrore si fa.

                                           Larghe pioggie fecondano i Campi,

                                               Ed i Campi rinovano i fiori,

                                               Ed i fiori han più vaga beltà.

                                                         S’arma &c.

 

ATTO TERZO

Scena XIII

 

                            Ti lascio, o cara.

                            In questo, che t’imprimo

                            Su la candida man, bacio funesto,

                            Prendi l’ultimo .... (oh Dio!

                               Proferirlo non so.) l’ultimo .... Addio.

                                Cara destra: io bacio in te

                                               Quella fè,

                                               Che mi donasti;

                                               Quell’amor che mi portasti,

                                               E che meco io porterò.

                                           E ti lascio, o destra cara,

                                               La memoria, benchè amara,

                                               Della fè che ti giurai,

                                               Dell’amor che ti serbai,

                                               E che ognor ti serberò

                                                         Cara &c." (30).

 

 

Nella luminosa stagione del Carnevale del 1724, accanto al trionfale Farnace del Vinci, un secondo dramma per musica, Scipione, musicato dal bolognese Luca Antonio Predieri, confermò la magnificenza impareggiabile degli allestimenti presentati al pubblico romano  dal prestigioso Teatro Alibert. 

In quest’opera, Domenico Gizzi fece ugualmente conoscere il valore della sua bellissima voce e la sua arte squisita, cantando nel ruolo di Lucindo, personaggio a cui era affidato il maggior numero di arie, ben sette, così disposte nel corso del dramma: tre nel Primo Atto, fra cui quella conclusiva, tre nel Secondo ed una nel Terzo. Nel cuore del Secondo Atto, inoltre, era posto un terzetto, affidato ai virtuosi più acclamati del momento: Domenico Gizzi, Luca Mengoni, nel ruolo di Scipione e Carlo Broschi, detto Farinello, nel ruolo di Salonice, mentre nella vibrante Scena XII del Terzo Atto, l’intenso duetto fra Gizzi e Farinello, si concludeva con un ampio pezzo a quattro, in cui intervenivano Luca Mengoni e Filippo Finazzi, nel ruolo di Elvira.

Fra le arie cantate da Domenico Gizzi, rivestiva un particolare interesse quella conclusiva della Prima Scena del Terzo Atto ed indicata nell’ultima pagina del Libretto, come variazione al testo originario, un’aria di notevole pathos, nella quale erano posti in luce i caratteri salienti del personaggio eroico interpretato dal virtuoso, combattuto tra l’amore per Salonice e le virtù dell’onore e dell’amicizia per Scipione:  

"Sì vò a morire; e il pianto

Del ciglio tuo vezzoso,

Men grande e generoso

Nò non mi renderà.

Gran forza hà in me il tuo amore:

Ma non avrà già’l vanto

Di far quest’alma cedere

A un’atto di viltà.

Vò &c" (31).    

         Una cronaca di questa stagione di Carnevale all’Alibert venne pubblicata dalla Gazzetta di Napoli nel numero 10 del 29 febbraio 1724. Secondo l’informato giornale partenopeo, che riferiva notizie dirette provenienti dall’Urbe, il clamoroso successo del dramma Farnace aveva oscurato la seconda opera, al punto tale da imporre una sospensione delle repliche di Scipione, in favore di una ripresa del Farnace nelle ultime sere di Carnevale, con alcune nuove arie appositamente composte dal Vinci. L’opera venne accolta nuovamente con vivissimi applausi e consensi dal pubblico romano, che apprezzò particolarmente la magnifica interpretazione del Farinelli e del Gizzi:

      "Roma - 25 febraro Non piacendo a questo Pubblico il Dramma, intitolato SCIPIONE, andato ultimamente in scena nel Teatro d’Alibert, non per la Musica composta dal Signor Predieri Bolognese di nazione, ma per la mala composizione del Libretto senz’accidenti, per la qual causa si rappresenta di nuovo nel detto Teatro l’Opera, intitolata FARNACE, che rapporta l’istess’applauso di prima, tanto per la Musica del Signor Vinci Napoletano di nazione, che per l’aggionta di 6. nuove Arie, tralasciate altrettante descritte nel Libretto, quanto per la qualità de’ Rappresentanti, & in particolare delli Signori Farina e Gizzii" (32).  

        Nella stagione d’autunno del 1724, il prestigioso Teatro di San Cassiano a Venezia presentò un attesissimo dramma per musica, Antigona, scritto dal nobile veneto Benedetto Pasqualigo e musicato dal compositore Giuseppe Maria Orlandini, Maestro di Cappella del Granduca di Toscana, Gian Gastone de’ Medici. In questo ricco allestimento, che inaugurava la stagione dei suoi trionfi veneziani, Domenico Gizzi interpretò il ruolo di Ceraste, affidato nel 1727 a Farinelli, in una ripresa successiva dell’opera a Bologna. Ben sette Mutazioni di Scene, con vedute di Templi, Sala del Trono, Giardini ecc., erano sapientemente disposte nel corso dei cinque atti della Tragedia.

           Il 1725 fu un anno ricco di successi teatrali per Domenico Gizzi, chiamato a partecipare ad un allestimento d’opera nella stagione estiva del Teatro la Pergola di Firenze. Fondato dall’aristocratica Accademia degli Immobili, questo Teatro era stato riaperto, ampliato e ristrutturato, nel 1718, con la previsione di un impresario e l’apertura al pubblico pagante. Dal carnevale del 1724 l’Accademia aveva concesso l’impresa del Teatro al Marchese Luca Casimiro degli Albizzi, amico e confidente dei Granduchi di Toscana Ferdinando e Gian Gastone de’ Medici. Uomo di grande talento sul piano artistico, questo gentiluomo fiorentino fu provveditore ed impresario illuminato ed accorto della Pergola, organizzatore di numerosi spettacoli d’opera che videro il concorso dei maggiori compositori e cantanti dell’epoca.  

         Nel dramma per musica Arminio, che segnò una tappa importante della sua carriera artistica, consolidando la sua reputazione in campo nazionale, Domenico Gizzi divise i caldi applausi del pubblico fiorentino, di fronte ad una platea aristocratica e raffinata, con alcuni virtuosi di chiarissima fama, come Nicola Grimaldi, detto Nicolino, Antonia Margherita Merighi e Maria Teresa Cotti.  

Con legittimo orgoglio, sul frontespizio del libretto dell’Arminio si annunciava che l’opera era rappresentata con il pieno favore e "sotto la protezione" di Sua Altezza Reale Gian Gastone I de’ Medici, Gran Duca di Toscana.  

In questo prestigioso allestimento, a Domenico Gizzi fu affidato il ruolo di Sigismondo

con cinque arie così disposte nel corso del dramma: 

nel Primo Atto due arie, la prima nella Scena XI e l’altra nella Scena XII, a conclusione del Primo Atto. 

 

 

 

 

 

                                                      Arminio 

         Nel Secondo Atto, un’aria nella Scena VII e nel Terzo Atto due arie, una nella Scena X e l’altra nella Scena XIII.

Domenico poté così far valere le sue qualità di finezza interpretativa in alcuni importanti momenti dell’azione drammatica, che attirarono il vivo interesse del pubblico e consentirono al cantante di scolpire la fisionomia del personaggio con una grande varietà di affetti. Fra questi momenti privilegiati spiccava l’aria conclusiva del Primo Atto, destinata a brillare per i caratteri più spiccatamente patetici e cantabili:  

"ATTO PRIMO

Cortile nel Palazzo di Segeste

Sigismondo

 

Ah Padre, e qual s’accende

Ingiusto sdegno in te, contro il mio amore?

Sai, che amare è Destino, e non dipende

L’amare, e’l non amar dal nostro cuore.

Vorrei disciogliere le mie catene,

            Ma il volto amabile del caro bene

           Toglie a quest’anima la libertà.

Ancor che misero sia questo cuore

           Pur soffre placido l’altrui rigore,

           E i lacci amabili lasciar non sa.

Vorrei, &c.".

 

Nel corso del Terzo Atto, Domenico non aveva esitato ad inserire un’aria diversa da quella stampata nel testo originale del libretto, cantando probabilmente una cosiddetta Aria di Baule, che, secondo la moda di quei tempi, l’artista portava sempre con sé e teneva in serbo per gli spettatori e nella quale era sicuro di farsi ammirare per le sue qualità migliori di virtuosismo.

"ATTO TERZO

Scena X

Atrio che conduce alle Prigioni

Sigismondo

 

    Vivi ò bella, e a chi t’adora               a Ramise

Serba, oh Dio costanza e fe

Vivi ò cara, invitta, e forte;         a Tusnelda

                                    Per salvare altri da morte

Dare il sangue, e Vita ognora

Mi vedrai per lei, per te" (33).

         Nella rassegna dell’attività operistica di Domenico Gizzi compare, con speciale menzione, un significativo passaggio del sopranista a Genova, nel prestigioso Teatro del Falcone, centro della vita teatrale di quella Città. Sorto sul luogo della locanda Hostaria Falconis, nel rione Sant’Antonio di Pre, il Teatro del Falcone fu ricostruito ed ampliato dalla Famiglia Durazzo, fra il 1702 e il 1705, su disegno dell’Architetto Fontana, con 114 palchi ed una tribuna per il Doge e per la nobiltà, ospitando spettacoli d’opera di prim’ordine, con uno sfarzo davvero ammirevole e con il concorso dei nomi più illustri dell’aristocrazia genovese.

         Sul palcoscenico di questo teatro, il musico interpretò due opere su libretto di Apostolo Zeno, La Griselda e Scipione nelle Spagne, entrambe poste in musica dal Maestro Pietro Vincenzo Chiocchetti, nella stagione di primavera del 1728 (34). Al fianco di Domenico, sosteneva i ruoli principali di Griselda e di Sofonisba, il grande soprano modenese di origine francese, Anna Maria Lodovica d’Ambreville (1693-1760 circa), al culmine di una prestigiosa carriera internazionale, "Virtuosa di Sua Maestà Cesarea" l’Imperatore Carlo VI d’Asburgo.  

 

         Domenico Gizzi fu uno dei principali interpreti nell’opera Catone in Utica, rappresentata a Venezia, per il Carnevale del 1729, posta in musica da Leonardo Leo, che costituì il primo incontro del musicista salentino con la poetica metastasiana.  

Aria di Cesare 

CATONE IN UTICA

Canta

L’allestimento ricco e fastoso tenne cartello per molte sere nel Teatro Grimani di San Giovanni Grisostomo, riscuotendo con sommo plauso un ottimo successo, sia per la musica e le scenografie ben curate che per il valore eccelso dei sopranisti Farinello, Nicolino e Gizzi, a cui il pubblico tributò un autentico omaggio di applausi, lodi e acclamazioni.

In questo soggetto drammatico, Domenico Gizzi sostenne un ruolo molto impegnativo che richiedeva grandi qualità sceniche, quello di Cesare, destinato a vivere, nel corso dei tre atti, un continuo e sottile confronto-contrasto con Catone, interpretato da Nicolino, in un ritmo incalzante delle scene.

A Cesare, presente sul palcoscenico in vari momenti del dramma, sono affidate cinque arie, in cui egli si rivela magnanimo e consapevole dell’alto compito affidato a Roma di governare il mondo. Nel vagheggiare i destini imperiali della Città Eterna, Cesare mostra una fermezza d’animo ed un amor di patria, uniti ad un sincero rispetto ed una profonda ammirazione per il Console Catone. Non mancano momenti in cui Cesare può manifestare il suo intenso e vivo amore per la figlia di Catone, Marzia, interpretata sulle scene dalla stella del Teatro, il grande soprano veneziano Lucia Facchinelli.

 

"ATTO PRIMO

Scena VI

Cesare

 

Nell’ardire, che il seno ti accende,

      Così bello lo sdegno si rende,

      Che in un punto mi desti nel petto,

      Meraviglia, rispetto,

      E pietà.

Tu m’insegni con quanta costanza

      Si contrasti alla sorte inumana,

      E che sono ad un’alma Romana

      Nomi ignoti timore, e viltà.

      Nell’ &c  (parte).

 

  Conclusione della Scena X

Cesare

 

Chi un dolce amor condanna

                     Vegga la mia nemica,

                     L’ascolti, e poi mi dica

                     S’è debolezza amor.

Quando da sì bel fonte

                     Derivano gli affetti

                     Vi son gli eroi soggetti,

                     Amano i Numi ancor.

                Che &c." (35).

 

           Le importanti apparizioni di Domenico Gizzi a Venezia, negli anni dell’apogeo artistico del Teatro di San Giovanni Grisostomo, sono state analizzate da Sylvie Mamy, nel suo volume sui castrati napoletani a Venezia nel XVIII secolo (36). La musicologa francese ha colto nello stile personale del cantante una espressione dei sentimenti patetici molto raffinata, attenta al contenuto poetico e al senso melodico, insieme ad una virtuosità perfetta. Mamy ha compiuto un autentico esame delle “Arie di Bravura” cantate da Domenico Gizzi a Venezia, cioè quelle arie che, nel Dramma per Musica, servivano a mettere alla prova la bravura e le qualità del cantante. Il testo di queste arie evocava delle immagini metaforiche, come il mare agitato da un vento impetuoso, o le connotazioni guerresche. Nelle “Arie di Bravura”, l’orchestra ed il virtuoso ingaggiavano una vera competizione, come quando venivano evocati gli elementi della natura in tempesta e le burrasche del vento e del mare, in cui il cantante e l’orchestra si misuravano in campo aperto, in una splendida gara virtuosistica, carica di un forte potere suggestivo.

Nelle figure di ornamento, con cui si eseguivano gli “abbellimenti”, cioè i vocalizzi che concorrevano ad impreziosire l’aria, la voce di Gizzi (negli ultimi anni della sua carriera in teatro) ascendeva fino al sol4, suscitando l’invenzione di nuovi tratti di virtuosismo, che in alcune arie (soprattutto nella sezione A, la più fiorita, che veniva ripresa nel da capo) occupavano fino alla metà delle misure cantate.  

           Nell’estate del 1729, Domenico fece ritorno a Roma, dove attese la preparazione  dell’allestimento di due opera serie, L’Eupatra e Andromaca, che si annunciavano di egregio valore, per il nome autorevole dei compositori, il romano Giovanni Battista Costanzi e il napoletano Francesco Feo. Questi drammi per musica richiamarono un larghissimo concorso di pubblico nel Teatro Valle, che si era assunto il non facile compito di rivaleggiare con le altre famose sale di spettacolo romane e di inaugurare un periodo artistico fortunato e brillante. Il Valle fu costruito dai Capranica nel cortile di un loro palazzo, presso Sant’Andrea della Valle, su disegno degli architetti Tommaso Morelli e Mauro Fontana. Con struttura lignea a ferro di cavallo e 5 ordini di palchi, venne affittato per nove anni a Domenico Valle ed inaugurato nel 1727. Le scene del Teatro Valle ospitarono una attività artistica di tutto rispetto, come conferma, appunto, la prima del dramma per musica L’Eupatra, di Giovanni Battista Costanzi, rappresentato il 3 gennaio 1730 e dedicato alla Principessa Maria Lavinia Boncompagni Ludovisi, moglie di Don Carmine Caracciolo, Principe di Santobono.

           Questa stagione teatrale consentì al Gizzi di entrare nuovamente in contatto con la società romana dell’epoca, dominata dalla figura eminente del Cardinale Pietro Ottoboni, pronipote di Papa Alessandro VIII, Protettore della Cappella Pontificia e Presidente della Congregazione di Santa Cecilia, mecenate delle arti e della vita musicale, teatrale e letteraria romana. La composizione della musica per il dramma L’Eupatra venne affidata a Giovanni Battista Costanzi (Roma 1704-1778), una figura artistica di primissimo piano, che godeva di una grande rinomanza e di un posto d’onore nella corte dell’Ottoboni, come compositore e virtuoso di violoncello (37). Seppur giovanissimo, al Costanzi toccò la distinzione di inaugurare al Teatro Valle la recita di drammi per musica, con un componimento drammatico molto apprezzato dai contemporanei.

         In L’Eupatra, Domenico Gizzi interpreta il ruolo di Farnace, figura di fiero e vittorioso principe, a cui sono affidate cinque arie ed un duetto e che si pone in luce fin dalla prima scena dell’opera, conclusasi appunto con un interessante pezzo di bravura, dove il personaggio "buon guerriero", manifesta lodevoli sentimenti di magnanima fedeltà nei confronti del suo Re, Mitridate, al cui favore egli si dichiara debitore di ogni onore:

"Farnace

             Ognun sà, che ministro

Solamente son io del tuo favore,

E che tutto si debbe al tuo gran core.

    Fiume, che altero scorre,

E spezza la sua sponda,

Tutto l’onor dell’onda

Sol deve al patrio mar:

Così del tuo favore

Il meritato onore

Ogni tuo buon guerriero

Deve da te sperar

Fiume &c.".    

L’Aria di Farnace della Scena VII del Secondo Atto riprende felicemente i classici temi amorosi e sentimentali dell’Arcadia:

 

"Per due pupille belle

Pugna quest’alma mia,

Avran pietà le stelle

D’un così giusto amor.

    Meglio è morir, che perdere

  Quei due lucenti rai,

Che fanno ognora accendere

Il fido amante cor.

      Per due &c.".  

           A Domenico è affidata anche la scena conclusiva del Secondo Atto, un momento di forte tensione drammatica, resa magnificamente da un testo vibrante nel recitativo, a cui segue un’aria metaforica ben delineata:

"Scena XIII

Farnace solo

Non ha più che temere

Quei, che tutto hà perduto;

Io corro incontro al mio crudel destino,

E pel cieco cammino

Non temo il lieto, o pur l’avverso fato,

Và contro ogni destino un disperato.

    Quel leon, che alla ferita

Non puo dar soccorso, e aita,

Morde il dardo, e pieno d’ira

Con se stesso più s’adira,

Che col forte Cacciator.

    Disperato ei piange, e freme,

Quanto più morte lo preme,

Mentre langue,

Lambe il sangue

Delle sue squarciate vene,

E non ha tema, ne orror.

Quel &c." (38).

 

   

Francesco Feo - Museo Civico BolognaNegli anni fecondi della sua maturità artistica, Francesco Feo presentò al pubblico romano una sua pregevole opera seria, Andromaca, su libretto di Apostolo Zeno, assicurandosi una vasta reputazione come compositore drammatico.

Dedicato al Cardinale Niccolò Coscia, questo dramma per musica (secondo la cronaca di Francesco Valesio) venne per lui rappresentato, a titolo di prova generale, la sera del 3 febbraio 1730, nel Palazzo del Marchese Felice Abati, Cameriere Pontificio di Cappa e Spada e Governatore Militare dell’Umbria in Via del Corso e andò in scena per la prima volta al Teatro Valle la sera del 5 febbraio (39).

         Considerato dal Burney uno dei più grandi maestri napoletani del suo tempo, Francesco Feo era nato a Napoli nel 1691. Secondo alcune fonti dell’Ottocento, fra cui il Grossi e il Florimo, egli sarebbe stato allievo di Domenico Gizzi nel canto e nella composizione, ricevendo ugualmente una solida educazione musicale nel Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini (40). Francesco Feo era tenuto in gran pregio da molti compositori della sua epoca, fra cui Christoph Willibald Gluck che utilizzò il Kyrie di una messa del maestro per un coro della sua opera Telemaco, riproducendone poi il tema nella sinfonia del dramma Ifigenia in Aulide.

         In Andromaca, che mostra una fusione fra i mezzi espressivi tradizionali e le nuove tendenze che saranno proprie dello stile galante, le qualità salienti di questo autore si evidenziano nella preminenza data ai valori del canto e della voce umana, il respiro e l’ampiezza delle sue arie ed in particolare dell’aria col da capo, con temi ricercati e imponenti virtuosismi vocali. A molto giovò, per l’ottima riuscita dell’opera, l’interpretazione avvincente resa sul palcoscenico da Domenico Gizzi nel ruolo principale di Pirro, figlio di Achille, Re dell’Epiro e amante di Andromaca, che seppe esprimere appieno il clima eroico e magniloquente in cui il dramma era immerso, fin dal primo atto, confermando la geniale vitalità del barocco musicale italiano.

"ATTO SECONDO

Scena XVI

Pirro solo

Altro consiglio

non ammette quest’alma. E la speranza

Con placida sembianza

A me così ragiona:

Tu sai, che sol la fede, e la virtude

Possono in nobil core

Imprimere il desio d’un nuovo amore.

Sulla novella pianta

      Germoglia nuovo il fiore

      Se Zeffiro gentil

      Soave spira.

Così di nuovo ardore

      Piena vedrò quell’alma,

      Se fè, costanza, e amore

      In me rimira.

      Sulla &c.

 

ATTO TERZO

Scena VI

Pirro

Per quelle pupille

      Mi sento nel core

      La calma d’amore,

      Che pace mi dà.

Se l’Asia già vinsi,

      La Grecia, che brama?

      Un cor, che ben ama

      Timore non ha.

      Per &c.

 

ATTO TERZO

Scena IX

Pirro

E nel spirar quest’alma addolorata

All’ombra del mio ben così direi.

Alma bella, ombra diletta

      Deh ti ferma, o Dio m’aspetta,

      Già a te vien lo spirto mio,

      E la nera onda funesta

      Ancor teco varcherà.

Se con te negò la sorte,

      Ch’io godessi e vita, e Regno,

      Ti palesi almen la morte,

      Che il mio amor non era indegno

      D’ottener la tua pietà.

      Alma &c." (41).  

 

           Due sono i drammi per musica di Domenico Sarro in cui il Musico Gizzi compare come interprete: Ginevra Principessa di Scozia, a Palermo e Il Valdemaro al Teatro delle Dame, nel carnevale del 1726.  

         Ugualmente due sono le opere del Vice Maestro della Cappella Ducale di Venezia, Antonio Pollarolo, musicista di gran fama all’epoca per le sue opere teatrali: Cosroe, rappresentata con vivo successo, a Roma al Teatro Alibert, nel Carnevale del 1723, con grandiose scenografie ispirate al mondo persiano e L’Abbandono di Armida a Venezia, l’ultima sera del Carnevale, il 1 marzo 1729.

           Domenico Gizzi concluse la sua carriera di cantante d’opera nel 1730, con una serie di rappresentazioni di fronte al pubblico dei palcoscenici romani, che aveva conosciuto ed ammirato per molti anni le sue interpretazioni. La sua voce, comunque, conservò per molti anni un potente fascino, che il maestro esercitava, ogni giorno, interpretando alcune arie fra le più belle del suo repertorio, accompagnandosi al clavicembalo.

         Dedicatosi all’insegnamento del canto e alla formazione dei giovani virtuosi, egli conciliò i suoi doveri di Primo Sopranista della Cappella Reale con preziose apparizioni negli Oratori e nelle Cantate, seguendo da vicino, con premura paterna, i grandi momenti della vita artistica del suo allievo prediletto, Gizziello, che egli di sovente accompagnava nei luoghi delle sue esibizioni, aiutandolo a vincere la sua naturale ritrosia e timidezza.

 

1) L’altissimo livello delle rappresentazioni al Teatro di San Giovanni dei Fiorentini nel 1707, sotto l’accorta regia dell’impresario Nicola Serino, è documentato nel volume FRANCESCO COTTICELLI – PAOLOGIOVANNI MAIONE, Onesto divertimento, e allegria de’ popoli. Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Ricordi, Milano 1996, pagg. 95-108.

 

2) FRANCESCO COTTICELLI - PAOLOGIOVANNI MAIONE, Le Istituzioni Musicali a Napoli durante il Viceregno austriaco (1707-1734), Materiali inediti sulla Real Cappella ed il Teatro di San Bartolomeo, Luciano Editore, Napoli 1993, pag. 85, nota 71.

 

3) GIOSUE’ CARDUCCI, Opere, XV, Bologna 1936, pag. 248, riportato in PIETRO METASTASIO, Opere, a cura di Franco Mollia, Garzanti, Milano 1979, pag. IX.

 

4) ALBERTO DE ANGELIS, Il teatro Alibert o delle Dame nella Roma papale (1717-1863), Tivoli, Chicca, 1951, pag. 145. Sull’attività teatrale a Roma negli anni in cui operò Domenico Gizzi, è fondamentale il volume di SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia Romana, II (1701-1750), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997.

 

5) Diario Ordinario (Diario di Roma), n. 1319 del 19 gennaio 1726, Roma Chracas.

 

6) PIETRO METASTASIO, Opere, a cura di Franco Mollia, Garzanti, Milano 1979, pag. IX.

 

7) DIDONE ABBANDONATA/Tragedia/di Artino Corasio/Pastore Arcade/Da Rappresentarsi in musica nel/ Teatro Tron di S. Cassano/Il Carnevale dell’anno MDCCXXV./ Dedicata /All’Eccellentissime/Dame Veneziane/ In Venezia, Appresso Marino Rossetti, in Merceria all’insegna della Pace, pagg. 20, 25, 34, 42, 56-57, 62.

 

8) DIDONE ABBANDONATA, Tragedia per Musica, …, In Reggio Emilia, per il Vedrotti, 1725.

 

9) DIDONE ABBANDONATA, …, Dedicata alla Maestà di GIACOMO III Rè della Gran Brettagna, In Roma per il Bernabò, 1726, pagg. 27-28, 39, 48, 68. Una importante analisi dell’opera del Vinci è stata compiuta da REINHARD STROHM, in L’Opera Italiana nel Settecento, Traduzione dal tedesco di Leonardo Cavari e Lorenzo Bianconi, Marsilio Editori, Venezia 1991, pagg. 173-189.

 

10) ROSY CANDIANI, Il mestiere di "Poeta del Teatro": la produzione di Pietro Metastasio durante il soggiorno a Roma, in “Roma Moderna e Contemporanea”, IV, 1996, pagg. 149-150.

 

11) Archivio del Gran Magistero del Sovrano Militare Ordine di Malta, Palazzo di Malta, Roma, Registro delle "Spese fatte e danari pagati per servizio del Teatro Alibert". Per gentile segnalazione di Sua Ecc. il Comm. Frà John Edward Critien, Conservatore degli Archivi e della Biblioteca dei Palazzi Magistrali.

 

12) Ibidem. Il compenso per i compositori Nicola Porpora e Antonio Pollarolo fu, rispettivamente, di 300 e 230 scudi romani.

 

13) BERENICE REGINA D’EGITTO, …, Roma per il Bernabò 1718, pagg. 29, 38, 40, 62-63.

 

14) FLAVIO ANICIO OLIBRIO, Dramma per Musica da rappresentarsi nel Teatro Alibert pe’l Carnevale dell’Anno 1722. Presentato Alla Maestà di CLEMENTINA Regina della Gran Brettagna. Si vendono nella Libraria di Pietro Leone Pasquino all’Insegna di S.Gio. di Dio. In Roma, nella Stamperia del Bernabò, 1722. Con licenza de’ Superiori, pagg. 62-63.

 

15) EZIO/Dramma per Musica di Artino Corasio, &c, Venezia 1728, pag. 2.

 

16) Ibidem, pagg. 53 e 72.

 

17) TELEMACO/Dramma per Musica di Carlo Sigismondo Capeci, …, In Roma, nella Stamperia del Bernabò, 1718, pag. 8 e CLAUDIO SARTORI, I Libretti italiani a stampa dalle origini al 1800,  Catalogo analitico con 16 indici, opera realizzata con il Patrocinio del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, Bertola & Locatelli Editori, 1990, vol. V, pag. 302.

 

18) TELEMACO cit., pagg. 14, 24, 48, 52-53.

 

19) SAVERIO FRANCHI, op. cit., pag. 137.

 

20) ERMINIA, Favola Pastorale d’un Accademico Quirino. Rappresentata nel Teatro della Pace nel Carnevale dell’anno 1719. In Roma, nella Stamperia di Antonio de’ Rossi, pagg. 6-7. La carriera ecclesiastica imponeva l’anonimato a Gaetano Lemer, Segretaro della Nunziatura Apostolica di Lucerna e poi Cameriere Segreto di Papa Clemente XII. Per Reinhard Strohm, l’autore del testo poetico di Erminia fu l’Abate Domenico Ottavio Petrosellini.

 

21) Ibidem, pag. 19.

 

22) Diario Ordinario (Diario di Roma), n. 252 del 15 febbraio 1719, pag. 10.

 

23) L’ETEARCO, Dramma per Musica Da rappresentarsi nell’Antico Teatro della Pace l’anno 1719. Dedicato All’Illustriss., et Eccellentiss. Signora La Signora ERNESTINA Contessa di Galasso Nata Contessa di Dietrechstein, Ambasciadrice Cesarea, e Cattolica nella Corte di Roma &c. In Roma, Nella Stamperia di Antonio de’ Rossi 1719. Con licenza de’ Superiori. Si vende dal medesimo Stampatore nella strada del Seminario Romano, vicino alla Rotonda, pagg. 3-4.

 

24) Ibidem, pagg. 18, 30, 36-37, 42 e 52.

 

25) ROBERTO PAGANO, Scarlatti Alessandro e Domenico: due vite in una, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1985, pag. 356. E’ l'unico testo a citare questa interpretazione palermitana del Gizzi. Insieme a Domenico, era giunta da Napoli la celebre cantante Margherita Salvagnini, che intepretò il ruolo di Ginevra.

 

26) GINEVRA PRINCIPESSA DI SCOZIA, …, In Palermo per Gramignani, ed Aiccardo,1720. Il librettista Antonio Salvi (1664-1724) fu medico e poeta di corte al servizio di Ferdinando de’ Medici, erede del Granduca di Toscana, nella piccola corte di Pratolino. In molti libretti di successo, dispiegò una singolare arte drammatica, ispirandosi per numerosi soggetti ad opere del teatro francese.

 

27) Nel Carnevale dell’anno 1721, sempre nel Teatro di Santa Cecilia, fu allestito un dramma per musica di Alessandro Scarlatti, Scipione nelle Spagne, su libretto di Apostolo Zeno, forse rimaneggiato e diretto dal figlio Domenico. A differenza del libretto a stampa della Ginevra, che indica fra gli interpreti Domenico Gizzi, il libretto del dramma di Scarlatti non segnala il nome dei cantanti. L’ipotesi avanzata dal musicologo palermitano Roberto Pagano su una probabile presenza del Gizzi fra i protagonisti dell’opera è avvalorata anche da un riscontro indiretto: nell’opera di Claudio Sartori non sono segnalate opere in musica da lui interpretate nel corso del 1721, per cui resta plausibile una sua partecipazione alla rappresentazione palermitana di quell’anno.

 

28) FRANCESCO COTTICELLI - PAOLOGIOVANNI MAIONE, Le Istituzioni Musicali a Napoli durante il Viceregno austriaco (1707-1734), Materiali inediti sulla Real Cappella ed il Teatro di San Bartolomeo, Luciano Editore, Napoli 1993, pag. 36. I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato di Napoli, Segreteria del Vicerè. Purtroppo, a causa della dispersione della documentazione musicale messinese, le ricerche condotte con l’aiuto della Prof.ssa Alba Crea e del Prof. Molonia, non hanno permesso di stabilire quali opere vennero interpretate da Domenico Gizzi a Messina.

 

29) KURT MARKSTROM, Voce Leonardo Vinci, in The New Grove, Dictionary of Music and Musiciants, second edition, Londra–Mcmillan Publishers, 2001, Vol. 26, pag. 654.

 

30) FARNACE, Dramma per Musica da recitarsi nel Teatro Alibert Pe’l Carnevale dell’Anno MDCCXXIV. Dedicato alla Maestà di GIACOMO III Rè d’Inghilterra &c. Si vendono a Pasquino nella Libraria di Pietro Leone all’Insegna di S.Gio. di Dio. In Roma, nella Stamperia del Bernabò, MDCCXXIV, pagg. 45, 53, 59 e 77.

 

31) SCIPIONE, Dramma per Musica da recitarsi nel Teatro Alibert Pe’l Carnevale dell’Anno MDCCXXIV. Dedicato alla Maestà di Clementina Regina d’Inghilterra &c. Si vendono a Pasquino nella Libraria di Pietro Leone all’Insegna di S.Gio. di Dio. In Roma, nella Stamperia del Bernabò, MDCCXXIV, pag. 78.

 

32) THOMAS GRIFFIN, Musical References in the Gazzetta di Napoli, n. 508, pag. 115, Fallen Leaf Press, Berkeley 1993.

 

33) ARMINIO, …, In Firenze 1725, pagg. 20 e 62. L’aria che Domenico interpretò nella Scena X del Terzo Atto è posta nell’ultima pagina del libretto, con l’avvertenza della sostituzione in vece di quella stampata a carte 50.

 

34) Nei suoi studi sulla storia del Teatro del Falcone di Genova, il Prof. Armando Fabio Ivaldi ha posto il luce il ruolo di primo piano svolto dal compositore  Pietro Vincenzo Chiocchetti (o Ciocchetti) (Lucca 1680-ivi 1753), nella vita musicale genovese, nel periodo che va dal 1724 al 1740.

 

35) CATONE IN UTICA, Tragedia per Musica di Artino Corasio, …, Venezia 1729, pagg. 16 e 21. L’opera era dedicata al Principe napoletano Don Domenico Marzio Pacecco Carafa, Duca di Maddaloni e Marchese d’Arienzo, protettore e mecenate di Leo e del Pergolesi.

 

36) SYLVIE MAMY, Les grands castrats napolitains à Venise au XVIII siècle, Pierre Mardaga éditeur, Liège 1994, pagg. 79-86. Le “Arie di Bravura” analizzate dalla musicologa sono: "Se in campo armato/Vuoi cimentarmi" Catone II,11; "Soffre talor del vento/I primi insulti il mare" Catone II,5; "Come all’amiche arene/L’onda rincalza" Semiramide riconosciuta I,8.

 

37) Sul Costanzi si vedano ALBERTO CAMETTI, Musicisti del Settecento a Roma G.B. Costanzi, violoncellista e compositore, in Musica d’Oggi, Milano 1924, anno VI, n. 1, pagg. 3-6 e n. 2, pagg. 39-43; M. LOPRIORE, G.B. Costanzi in Dizionario Biografico degli Italiani, Edizioni Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1984, vol. 30, pagg. 380-383, con ampia bibliografia.

 

38) L’EUPATRA, Drama per Musica, …, Roma 1730, Per il Zempel, e de Mey, pagg. 13, 42 e 50. Per il Prof. Franchi, l’autore di L’Eupatra, forse, fu Gaetano Lemer.

 

39) SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia Romana, II (1701-1750), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, pag. , che riferisce la notizia riportata da Francesco Valesio nel suo Diario di Roma.

 

40) Su Francesco Feo, si veda T. CHIRICO, voce Francesco Feo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Edizioni Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1996, vol. 46, pagg. 160-163, ugualmente con ampia bibliografia.

 

41) ANDROMACA, Dramma per Musica, …, Roma 1730,  per il Zempel, e de Mey, pagg. 41-42, 52, 56.

 

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A cura di

Il Principe del Cembalo - Rodelinda da Versailles

Arsace da Versailles - Faustina da Versailles

Arbace - Alessandro - Andrea & Carla

Un enorme grazie a

Avvocato Stefano Gizzi

Nei restauri, ancora in corso, con Stefano Gizzi, hanno collaborato e si ringraziano:

1) il Maestro Ebanista COLOMBO VERRELLI, che ha restaurato le porte, ne ha realizzato di nuove sempre secondo lo stile dell'epoca, ha restaurato alcuni mobili fra cui lo scrittoio del Musico Domenico Gizzi ridotto in cattivo stato.

Scrittoio originale di Domenico Gizzi - restaurato dal maestro Maestro Ebanista COLOMBO VERRELLI

2) il Maestro FRANCESCO BARTOLI, pittore e decoratore, per la scelta dei colori, la definizione degli stessi con le tonalità assolutamente dell'epoca e l'arredamento delle sale con materiali, carte e stucchi, rigorosamente d'epoca.

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